
Terra di nessuno
24 maggio 1915. Sulla tradotta verso la Grande Guerra
Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Autostrada del Sole, verso Parma, 24 maggio – In questa mattina di primavera, cento anni dopo, guidando verso Milano cerco di immaginare. Di immaginare un treno, una tradotta militare, che a Parma caricò i primi fanti diretti al fronte; e come, fra quelle centinaia di ragazzi, ci fosse mio nonno, il padre di mio padre, che io nemmeno ho fatto in tempo a conoscere. Si chiamava Ferdinando, contadino immigrato a Parma dalle campagne, di professione daziere. Aveva, nel 1915, circa 25 anni; e già una moglie, e un figlio, mio padre, appena nato. Abitavano nell’Oltretorrente, quartiere popolare dove l’interventismo aveva acceso gli animi. Mio nonno – pochi frammenti mi sono arrivati di lui – da giovane era anarchico. Mi chiedo – mentre accelero, e supero un Tir – con che animo partisse per quella guerra di cui parlò pochissimo, una volta tornato.
Mi sforzo di immaginare: com’era, partire su una tradotta che, lenta, a ogni stazione caricava altri soldati; e a ogni chilometro una diversa inflessione nell’accento, e dialetti nuovi, che suonavano stranieri. Ma eravate contenti di partire, voi fanti del 62esimo Regio Reggimento? Molti sì, forse: infervorati dalla propaganda, si tenevano stretto orgogliosi il loro fucile. Mio nonno, chissà. A casa lasciava una giovane donna, e un bambino che nemmeno ancora camminava.
Doveva essere triste, partire di maggio per la guerra, in una mattina di sole come questa. E cerco di non vedere tutto quello che cento anni fa non c’era: di non vedere il nastro dell’autostrada, e i binari dell’alta velocità; e i tralicci dell’alta tensione, e i capannoni industriali. Voglio vedere soltanto questi campi rigogliosi di maggio, su cui fiammeggiano, come allora, i primi papaveri; e i filari di pioppi, e le cascine larghe, sdraiate su questa terra generosa, con i fienili pieni. Voglio sentire l’odore di stallatico che come allora si allarga nella pianura. E il profumo dei tigli nei cortili, inebriante come un elisir.
Tu, nato contadino, certo dal treno guardavi gli appezzamenti, le stalle, e ne misuravi la consistenza. E sapevi come nelle cantine fermentava nelle botti il vino, e stagionavano, appesi, i salami. Chissà come guardavi la pace e il ben di Dio che ti lasciavi indietro. Chissà se come tanti tuoi compagni parlavi e ridevi e cantavi, o se te ne stavi in un angolo, zitto. Mi pare di vederti, i capelli fulvi e un’ombra di barba rossa sulle guance – in tasca una foto di lei, che, a casa, con la sua fede ostinata pregava. E il treno che marciava sferragliando, e Parma e i tuoi, sempre più lontani.
Del 62esimo Regio Reggimento, 1.089 caddero in battaglia, 1.718 morirono per le ferite, 1.800 di malattie, 420 in prigionia, e 673 risultarono dispersi.
Forse per questo, tornato, hai taciuto. Il rosso dei tuoi capelli l’ho ritrovato in mio figlio, appena nato. Al volante corro verso Milano – cercando ancora all’orizzonte il mondo, com’era. Di proprio uguale a allora, forse solo il cielo: come quel giorno chiaro, immenso, in pace.
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