Il carcere delle delizie

Di Tuti Mario
25 Agosto 1999
Un detenuto da un quarto di secolo racconta la nuova svolta democratica dell’organizzazione penitenziaria italiana. Si esce solo se ci si pente davanti a un giudice (o con una chiamata in correo in carta bollata). Vietato lavorare con un disabile. Vietato fare beneficenza. Vietato resistere all’omologazione burocratica, cioé alla banalità del male

In una glossa a Gregorio Nisseno si contraddice la consueta raffigurazione dell’Inferno come luogo di fiamme e tormenti, descrivendolo invece come un Giardino delle Delizie, dove poter godere di tutti i beni terreni, ma venendo privati dell’essenziale, della visione di Dio. Il tormento supremo, col rimorso e il rimpianto, eterni e ineludibili, a segnare ogni istante, ogni gioia e ogni piacere col crisma dell’assenza, di quell’ignoto che genera paura, disperazione e tormento.

Una visione mirabilmente ripresa da Hieronymus Bosch nel trittico del Prado, in quel Giardino delle Delizie dove la denuncia della follia umana, con la sua brama di beni terreni e di piaceri, si esprime in elementi simbolici sottilmente ambigui, in immagini affascinanti e insieme inquietanti che sembrano nascondere e al tempo stesso rivelare la presenza del male nelle vicende del mondo. Figurazioni d’incubo e di angoscia, frammenti di un universo sconvolto e ricomposto come in un’immagine onirica dove le ibridazioni bestiali, le metamorfosi diaboliche, i mostruosi macchinismi dicono di un mondo dove, pur nella sfrenatezza dei piaceri, degli esseri, delle cose, nessuna verità e nessuna via resta più possibile alla coscienza. Contro agiografici raccontini di direttori, politicanti, cronisti e dissociati vari, solo le inquietanti raffigurazioni pittoriche di un genio potrebbero dire l’orrore e l’abiezione di queste nostre carceri democratiche, dove si ha tutto, meno che l’essenziale. Non il Mistero della colpa, della pena, della redenzione, ma solo una squallida contabilità a base di relazioni, benefici, complicità, corruzioni e rieducazioni… Quando non gli basta il carcere e la pena, ma vogliono anche la sentenza che li accompagni. Ed ecco allora le pretese di confessione, penitenzialismi e ammissioni di colpa, non di fronte a qualche commissario del popolo o ufficiale delle SS, ma a semplici e civili impiegati: psicologi, educatori e direttori a esercitare un potere assoluto ancorché anodino. In un universo concentrazionario che non concede alcun scampo, permeato da una volontà ignota, imperscrutabile, assurda – democratica forse? o forse solo diabolica – dove oggi ti dicono di cercarti un lavoro per uscire e domani s’inventano una nuova emergenza con gli isolamenti, i pestaggi, le torture; dove qualcuno, “irriducibile”, esce dopo aver scontato un anno di carcere per ogni condanna all’ergastolo e qualcun altro, magari ridotto anche male, si fa quaranta anni di carcere senza nemmeno avere l’ergastolo; dove ti consentono di spendere milioni per comprarti computer, fisarmonica e quanto altro, ma poi ti vietano di spedire una piccola somma in beneficenza solo perché volevi che almeno quel semplice gesto di solidarietà non fosse stravolto dall’invadenza di una “legislazione premiale” che pretende di disporre non solo dei corpi ma anche delle coscienze, riducendo ognuno a carceriere di se stesso e dei propri compagni…

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