
Sul Kosovo nessuna contraddizione
Un illustre collaboratore ha avanzato qualche perplessità, a dire il vero lievissima, sul modo in cui abbiamo continuato a raccontare il dopo guerra in Kosovo. Lo ringraziamo perché ci dà così lo spunto per rispondere a illustri editorialisti che si dilettano nella (facile) caccia al pacifista e a dubbi che magari serpeggiano anche in qualche nostro lettore. La perplessità di fondo riguarderebbe i servizi del nostro bravo Gian Micalessin: come se raccontare la puzza di cadaveri e la visione di membra sparse e di fosse comuni che lo hanno seguito dal primo giorno in cui è entrato in Kosovo all’ultimo – dopo quasi un mese di scarpinate nel fango e nella polvere – fosse in contraddizione col giudizio da noi espresso sin dall’inizio, cioè che la guerra contro la Serbia era ingiusta. È vero, qualcuno si è presentato sulle prime pagine dei giornali con cattivo gusto ghignante per dire: “e adesso che ci sono le prove delle fosse comuni, cosa dicono i nostri pacifisti”? È così che va il mondo, mica importa di cercare il bene possibile per la maggior parte possibile. No, di qua sta tutto il bene (soprattutto poi quando si vince), di là sta il male (possibilmente radicale). Si pensa cioè che il problema della vita sia sempre quello di stare dalla parte giusta. Mentre non c’è che una parte dalle quale si dovrebbe sempre cercare di stare: quella dell’uso della ragione che consiglia di valutare le cose tenendo il più possibile conto di tutti i fattori implicati in un certo fatto, in una certa scelta, in una certa decisione. Dunque: perché non abbiamo approvato la guerra in grande stile contro Belgrado? Perché eravamo convinti, come i fatti hanno poi dimostrato, che affidare la difesa dell’inerme popolazione kosovara alla sola azione devastatrice dei top-gun della Nato (certamente per salvaguardare le vite dei fanti occidentali, ma forse anche per motivi più turpi, come quello di provocare rappresaglie terribili dei serbi contro i kosovari, che poi sarebbero servite come giustificazione ex post dell’intervento Nato) avrebbe in primo luogo ingigantito le pretese dell’odio, avrebbe moltiplicato la pulizia etnica, avrebbe lasciato uno strascico di divisioni,vendette, odio che chissà quando si rimargineranno. Ora, tutto questo si è puntualmente realizzato. E agli irridenti editorialisti di casa nostra vorremmo ricordare che questo giudizio di fatto (perché di ciò si tratta) non è solo nostro, ma è stato espresso in commenti di fonte insospettabile, come l’editoriale apparso su The Economist che abbiamo riproposto ai lettori sul n. 24 di Tempi, pagina 8: “La più grande ragione per mettere in questione la natura del trionfo degli alleati è il suo principale fallimento: questa guerra è stata fatta per impedire la pulizia etnica, ma il suo principale effetto è stato di intensificarla. La campagna di bombardamenti ha accelerato le uccisioni. In termini umanitari, la campagna del Kosovo è stata un disastro”. Fortunatamente la guerra è durata meno di quanto a un certo punto si poteva temere (e il merito è soprattutto dei russi, che si sono impuntati coi loro alleati serbi), tutti noi siamo ovviamente contenti che Milosevic abbia perso e ci auguriamo che, seguendo il consiglio della Chiesa ortodossa serba e degli amici russi, si faccia da parte per il bene del popolo. Tutto ciò è quanto ci è sembrato ragionevole dire, e che si sintetizza nelle parole: con la pace tutto è possibile, con la gueurra tutto è perduto, perché la guerra, questa guerra, è una sconfitta per tutti, come giustamente ha ricordato il Papa. Detto questo, e precisato che si cerca di capire e noi cerchiamo di capire e quindi di prendere posizioni convincenti anzitutto per noi stessi, resta vero che un giornale è fatto per far la guardia ai fatti, non per fare romanzi. E allora quando Gian è andato in Kosovo noi non gli abbiamo detto: “guarda, la linea è questa, dunque adeguati”, ma: “Vai, vedi, scrivi liberamente”. Perché sapevamo che i suoi reportage non avrebbero fatto che confermare il nostro giudizio: questa guerra ha causato mali più grandi di quelli che voleva evitare. TEMPI
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