Maturo,come una pera

Di Croce Marcello
07 Luglio 1999
Il rito in chiave riformata dell’esame di stato. Una familiare (e quasi parrocchiale) esercitazione su attualità, scienza, volontariato, ingerenza umanitaria e tecniche da provincia americana. Silenzio sul fenomeno del secolo. Riflessioni di un Preside in margine alle prove d’italiano della nuova maturità

Presi singolarmente, i titoli delle prove d’italiano nell’Esame di Stato sembrano solo piccole innovazioni sui vecchi, tradizionali esercizi della retorica ministeriale. Tuttavia la prima impressione è quella di una insolita compattezza. È l’insieme che conta. L’attenzione peraltro è distratta dall’inserimento delle “nuove” tipologie di scrittura, che quest’anno cercano di variare e, probabilmente, di sostituire la vecchia prova di “orazione scritta”, il ben noto “tema”. In particolare, il tipo di scrittura giornalistica sembra destinato a influenzare i nuovi processi di apprendimento in nome di una concezione dell’attualità della cultura, che è agli antipodi della concezione della scuola umanistica e gentiliana. Paratassi e neologismi, asetticità del dire e tecnicismi dovrebbero sostituire il fraseggiare classicheggiante, il purismo, il rigore formale, la soggettività dell’espressione. Al fervore etico-religioso che il Gentile inspirò nella scuola dell’antica riforma, succederà, trascorso ormai il furore ideologico del marxismo di Francoforte, il moralismo grigio e un po’ tetro della cultura post-comunista rappresentata dal ministro Berlinguer. Senza più storia, e dunque senza palingenesi e senza modelli realizzati, il marxismo è rimasto come sospeso in un’aurea senza tempo. Se c’è un aspetto sul quale l’intellettualità filo-governativa perciò insisterà tenacemente, è proprio la negazione della novità della storia. Si badi che si tratta di una forma ideologica particolarmente insidiosa, perché il suo scopo è quello di semplificare in modo elementare i concetti etici, riducendoli (come è proprio di ogni posizione ideologica) al puro campo della politica. Questa è la sensazione che si prova osservando la colata di ideologia versata dal nostro Ministero sulla scuola italiana attraverso i temi imposti all’Esame. Di essi occorre innanzitutto indagare il silenzio, interrogare ciò che non viene detto (non c’è una parola che ricordi il Comunismo ad esempio; eppure noi sappiamo, anche perché lo hanno insegnato proprio loro, per decenni, che è stato il fenomeno storico più importante del XX secolo: eppure, nei temi di Berlinguer neppure una riga, una frase, una semplice allusione. Niente.). Berlinguer cita (col metodo giudiziario dell’avviso di garanzia, stralcia e pubblica) scrittori che parlano della guerra in modo tale che, per contrasto, il candidato non abbia altra scelta che aderire alla pidiessina concezione della guerra “umanitaria”, nuova ineffabile versione della vecchia concezione della guerra “rivoluzionaria”: in fondo, è sempre la stessa cosa. La guerra è buona solo se non si è dalla parte sbagliata (che è quella di chi non vince), ma guai a definirla “guerra” (sporca parola che ieri era di matrice “borghese”, oggi è di matrice “nazista”). No, la guerra pidiessina (e dintorni) non è guerra, è “neutralizzazione delle infrastrutture”, è “intervento umanitario”, è “liberazione” e pasticcini simili. Diamine, non confondiamo mica le reticenze ovattate di D’Alema con la trasparenza verbale di D’Annunzio o di Marinetti, o di quel filo-tedesco di Thomas Mann: cattivi esempi perché non dicevano affatto male della guerra quando la facevano. Così alla fine non apparivano assai più buoni del nemico, dopo averlo bombardato, gasato, arrostito: come invece oggi ci è dato di pensare di loro, i pidiessini. L’orizzonte culturale di Berlinguer è inchiodato agli stereotipi inventati dai suoi maestri, i maestri, non dimentichiamolo, della menzogna ideologica. Non cita naturalmente l’elogio del terrorismo scritta da Lenin proprio in quegli anni. È il silenzio che conta. Così i temi proseguono nel loro percorso infallibile verso la punta di diamante dell’ideologia post-comunista, il male per antonomasia, il Nazismo. Citatissimo, il Nazismo occupa l’intero spazio, lo riempie, non lascia posto per altro male. C’è anche un mediocre film sulla propaganda di guerra del governo inglese, con la notissima immagine di Chaplin in divisa con gli asterischi sopra la fronte (altro stereotipo).

Bisogna riflettere bene. Sostenendo l’immagine del secolo come conflitto tra Libertà e Nazismo, il post-comunismo riafferma silenziosamente il proprio ruolo storico di avversario del male e nel contempo esonera chiunque da ogni giudizio sulla esperienza che esso ha realmente rappresentato. Così compie un atto di autoassoluzione, e può tranquillamente mimetizzarsi nell’attualità (altro mito volgare che fa parte dell’ideologia berlingueriana). A questo punto la crisi prende un volto più familiare, quasi cattolico. Si parla della famiglia. Fattala franca grazie al Nazismo, Berlinguer può abbandonarsi a considerazioni di tipo sociologico sulla crisi dell’istituzione famigliare, certo propiziata da lui e dai suoi compagni di partito solidali con le rivoluzioni sessuo-politiche e di liberazione degli anni Sessanta e Settanta. Ora non piange, il ministro Berlinguer, ma si compiace di chiamare in causa il problema dal superiore punto di vista delle scienze sociali, come dimostra la citazione della pagina di Golini: con il distacco con cui si parla, insomma, dei fenomeni dell’erosione delle rocce a causa dello scorrimento delle acque. E infine il quadro si compie con un altro tocco di sapore scientifico-umanitario. Diamine, convertìti al Capitalismo sì, all’americanismo sì, ma non senza dibattere “i grandi problemi dell’umanità”. La citazione del rapporto sullo State of the World ’99 ristabilisce il primato di una coscienza di classe terzomondista ed ecologista, che se appare del tutto innocua, rappresenta pur sempre un fiore all’occhiello. Tanto più che non tocca minimamente le responsabilità di nessuno, almeno qui.

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