
La stagione della morte
Chissà che fine ha fatto Nukadin Shala. Chissà che fine hanno fatto sua moglie, i due bambini, l’anziano padre. Vivevano qui, in Kajmakcallani 16, nel quartiere albanese di Pec. Di loro è rimasto solo il sangue. Raggrumato a chiazze sul pavimento, a schizzi sui muri, a strisce in questa stanza innaffiata di proiettili. Nel sangue ci hanno immerso le mani. Le impronte sono sulla parete. Quattro mani insanguinate. Quattro firme con il sangue: Kaky, Veki, Roky, Vuvy. Con il sangue un’unica enorme scritta: “Nato killer, voi uccidete i nostri figli, noi uccidiamo i vostri”. Più in là un buco sulla parete. Intorno un alone sanguinolento. Il bagno è l’unica parte intatta della casa. Sulla porta il capitano dell’esercito Darko Romanovic ha lasciato un biglietto firmato: “Per cortesia, non distruggere i servizi perché li usiamo noi”.
Lo chiamavano “Minic morte”
Esci, fai 50 metri. C’è un omone con i baffi senza più lacrime. Da sette giorni ripete la propria storia. Il 12 giugno è un sabato e la guerra a Pec sta per finire. La sera è tiepida di speranze. L’esercito italiano sta per arrivare. Questione di 48 ore. Isak Bala è chiuso in casa. La moglie è nascosta dalla madre. Sono rimasti i 4 figli. Hajri, dodici anni, Agon di sei, Veton di otto. Dardane, l’unica figlia, ha undici anni. Qualcuno bussa alla porta. Isak apre. “È buio, ma li riconosco subito. Davanti a tutti c’è lui. Lui a Pec lo chiamavano ‘Minic mrtvi’, ‘Minic morte’. Gli altri sono i suoi uomini. Sono tutti serbi della Bosnia. Minic ha il corpo coperto di tatuaggi. Prima era in galera. È uscito con la guerra. È ritornato con la divisa. Mi chiedono soldi. Prendo 3mila marchi, sono tutti i miei risparmi. “Non bastano”, dice Minic. “Siamo in troppi e non abbiamo tempo”. Poi, indica i bambini: “Se gli vuoi bene, trova altri soldi”. Gli altri ridono, sghignazzano. Sono ubriachi. Chiedo di andare da mio fratello. Devo trovare altri soldi. Ci portano tutti li. Ci sono mio fratello Musa, c’è sua moglie Vsollca e ci sono i tre figli. Ruina ha sette anni. Poi ci sono Nita, di quattro e Roni di tre. Mio fratello tira fuori un pacco. Dentro ci sono 4.900 marchi. Li contano uno ad uno. Ridono, ci insultano. Non bastano, dicono. Sappiamo che puoi far meglio. Fallo per i bambini, mi ripetono. Intanto spogliano Vsollca. La violentano tutti. Uno dopo l’altro. Sul divano, davanti a noi e ai bambini. Mio fratello e io giuriamo e spergiuriamo. Non abbiamo più niente, non abbiamo altri soldi. “Li avete, li avete, sporchi albanesi – noi vi conosciamo”. Preghiamo, imploriamo, urliamo. Loro ci fanno sedere sul divano. Lì, vicino a dove si sono presi Vsollca. Lei è ancora lì, sdraiata sui cuscini. Li spingono con le canne dei fucili. Mio fratello e, uno a uno, tutti i bambini. Non si sono neanche seduti e già loro cominciano a sparare. Prendo Veton e salto giù dalla finestra. Giù dal secondo piano, col bambino in braccio. Intanto, loro cominciano a sparare, a ridere, a gridare. Non mi cercano neanche. Escono dalla stanza e tirano dentro una granata. Sono scappato per tutta la notte. Sono tornato il giorno dopo. C’era il cervello dei miei bambini per terra e sui muri. Loro, i serbi, se ne stavano andando. Li ho guardati andare. Ho sepolto i miei bambini. Poi sono tornato a lavare la stanza. Quando ho finito era finita la guerra. E finita la mia vita. Signori, scusate, la volete vedere quella stanza? Non si vede più niente perché l’ho lavata con le mie mani. Ma forse voi la volete vedere. È lì che li hanno uccisi. Vi prego signori… se la volete vedere”.
Le case vuote, le tombe piene A Korenika, oltre il ponte. Nel cimiterino al lato della strada. È rimasto un piede. Un piede nero. L’odore è dolciastro. Il piede è lì, tra la terra rimossa. Uno spuntone d’osso e carne macilenta. “Lì sotto – ti dicono – il 27 aprile venti persone”. Lì sotto, sotto quella terra smossa. Tu guardi il piede. Reliquia putrida. Perché tagliare un piede? Di chi era? Chi l’ha buttato lì? Te lo immagini il padrone di quel piede. Guardarselo volare via. Guardarsi morire insieme ad altri venti. Cosa è successo il 27 aprile? È rimasto solo lezzo e terra smossa. Se ne sono andati. Tutti. A Klina 5 strade vuote. Un carretto rovesciato. Due materassi sull’asfalto. 30mila serbi scomparsi. Volatilizzati. Ieri in questa casa hanno cenato. La porta sbatte nel vento della sera. La finestra è aperta. Una tenda sozza svolazza fuori. La tavola con i piatti spochi è ancora lì. Gli armadi svuotati. Vestiti sparpagliati fino alla soglia di casa. Loro li ho incontrati sulla strada. La donna sul carro piange. Sta appoggiata a un mobile di legno e sobbalza con lui. Il trattore arranca. Come loro, gli altri, un mese fa. Solo, in direzione opposta. I trattori sfilano verso nord. Un bambino saluta. Gli uomini guidano. Gli occhi fissi verso nord. I fucili posati sul cruscotto. A Klina sono rimasti i maiali. Invadono le strade. Spingono le porte socchiuse. Dai manifesti sui muri Milosevic sorride ancora.
Il guerriero ubriaco attende il suo destino Milos fino a ieri era un guerriero. Bielo Polje il suo regno. Sono arrivati ieri. Milos è una foglia tremante. Il suo regno un deserto. Loro sono lì, tre buchi neri nella fronte. Due al piano terra di una casa all’inizio del villaggio. Uno al piano di sopra. Li hanno messi lì dentro. Hanno chiuso tutto e se ne sono andati. Tutti sessanta. L’Uck è arrivato poco dopo le cinque di sera. Hanno preso i primi tre uomini del villaggio e gli hanno sparato nella testa. Lì nella piazzetta fra le case di pietra, le galline e le donne in nero. “Andatevene tutti o farete la stessa fine”. Poi sono saliti da Milos. Cercavano lui. Hanno trovato il fratello. Il suo cervello è ancora qui, sul tappeto del sofa. Milos lo ha raccolto con un fazzolettino. Pezzo dopo pezzo. Ora è qui, seduto sul divano. Puzza di grappa e trema. I suoi guerrieri lo hanno abbandonato. Cantavano insieme ieri: “C’è chi scappa e chi rimane, ma la Serbia trionferà”. Sono scappati tutti. Milos è rimasto solo. Con le sue foto in divisa, col suo kalashnikov e la sua divisa. “Un uomo vero non scappa, non lascia la sua casa”. Lo ripete e trema. A Bielo Polje corrono cani impazziti. Mucche, capre e maiali. Gli uomini se ne sono andati. I guerrieri sono scomparsi. Sono rimasti cadaveri e una foglia che trema. Seduto sul sofa, stringe il kalashnikov e attende che vengano. “C’è un tempo per vivere e un tempo per morire” – ha detto. Gli ho regalato un pezzo di pane. Lui mi ha salutato.
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