Disinformazione di guerra

Di Gian Micalessin
02 Giugno 1999
In Kosovo come a Belgrado il giornalismo è ostaggio di un inestricabile groviglio di informazioni in cui è quasi impossibile distinguere i fatti dalla propaganda. Tutti gli addetti ai lavori lo sanno, ma pochi lo ammettono: in un conflitto non ci sono verità, ma solo versioni. Ragionando di “Guerra & Quarto Potere” dopo che l’inviato della Bbc in Jugoslavia ha ammesso: “mi sento la pedina di un gioco più grande e sinistro”

“Rimasi in silenzio per una frazione di secondo, ma mi sembrò un’eternità. Mi immaginavo James Shea e un po’ di altre persone intente a soppesare le mie parole. Stavo per raccontare la verità, ma quale verità? Avevo visto trattori bruciati e indumenti dei profughi. Avevo visto intorno quelli che sembravano essere dei negozi. Non avevo visto armi, ma ero arrivato con trentasei ore di ritardo e mi era stato permesso di rimanere sul posto soltanto venti minuti. Per la prima volta nella mia carriera di giornalista mi sentivo una pedina. Una pedina di un gioco molto più grande e sinistro”.

Il “genocidio”(secondo Belgrado) Jacky Rowland, inviato della Bbc in Serbia racconta così il resoconto radiofonico del suo viaggio a Korisa, sperduto villaggio del Kosovo dove un paio di settimane fa un missile della Nato ha colpito per errore un gruppo di profughi uccidendone un’ottantina. I serbi sostengono che si trattava di una colonna di rifugiati rientrati dall’Albania per far ritorno alle proprie case. Per la Nato la verità è tutt’altra. Si trattava di una colonna di profughi parcheggiati, come scudi umani, intorno a delle installazioni militari. Chi ha ragione? Difficile, forse impossibile, come spiega Rowland, capirlo. È un po’ il destino di tutta questa guerra che man mano che avanza sembra fuggire sempre di più al controllo dell’informazione. Sui quattro scenari principali, Belgrado, il territorio del Kosovo, la frontiera macedone e l’Albania i giornalisti lavorano su avvenimenti a cui è impossibile, o molto difficile, aver accesso diretto. Le fonti diventano sempre meno verificabili. L’evidenza diventa un concetto sempre più controverso. Incominciamo da Belgrado. Relegati nei loro alberghi gli inviati dipendono in gran parte dalla disponibilità della macchina informativa serba. Certo possono passeggiare per la capitale, parlar con gli abitanti, raccogliere gli stati d’animo della popolazione, ma per raggiungere i luoghi dei bombardamenti devono viaggiare in colonna scortati dalla polizia. Le opportunità di viaggio non sono molte. Quasi sempre vengono portati a vedere soltanto edifici colpiti per errore dalla Nato, quasi sempre edifici dove vi sono state vittime civili.

Nella guerra della propaganda i civili feriti o uccisi vengono esibiti. Sul tabellone del punteggio contano come una vittoria conquistata sul terreno militare. Probabilmente nessun giornalista viene scortato a visitare gli stabilimenti di produzione militare colpiti dalla Nato. Nessuno ad intervistare i soldati reduci del Kosovo feriti negli ospedali. La verità che ci arriva da Belgrado è uno spicchio di verità parziale, decontestualizzata, impossibile da interpretare. Jacky Rowland ci può dire che ha visto trattori bruciati e vestiti di profughi. Questo è senza dubbio vero, ma è sufficiente? Come Rowland sa bene assolutamente no. Condotto per venti minuti dalle guide serbe in un tour organizzato, al giornalista non è consentito intervistare gli abitanti del villaggio, chiedere informazioni sulla presenza di mezzi militari nelle ore precedenti l’attacco della Nato. Non può ispezionare gli edifici della zona per cercare di capire se vi siano mezzi militari o postazioni anti-aree dissimulate tra le case civili. Vede e riporta quello che gli è consentito vedere.

La guerra di liberazione (secondo l’Uck) Il fronte del Kosovo, quello su cui si combatte veramente questa guerra, resta quello più misterioso e impenetrabile. I due attori principali presenti sul terreno, l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) e l’esercito serbo almeno su un punto sembrano essere assolutamente d’accordo: evitare in qualsiasi maniera l’accesso dei giornalisti. A differenza di quanto succede con altre guerriglie, assolutamente smaniose di condurre reporter e telecamere sui luoghi d’azione, l’Uck sembra restio a qualsiasi contatto con la stampa. I giornalisti vengono portati, nel caso migliore, qualche chilometro all’interno del Kosovo lungo quel corridoio d’infiltrazione aperto dal confine nord orientale dell’Albania a prezzo di duri combattimenti. Qui incontrano gruppetti di guerriglieri euforici pronti a sostenere di aver la meglio su un esercito serbo stanco e demoralizzato, sempre pronto a ritirarsi non appena si arriva allo scontro frontale. Eppure la battaglia tra il confine albanese e il villaggio di Batusha, otto chilometri più avanti, dura ormai da un mese e mezzo. Otto chilometri in un mese e mezzo di battaglie costate centinaia di morti non sono una grande vittoria per una guerriglia che punta alla liberazione dell’intera regione. Dove siano poi i ventimila uomini che questa guerriglia sostiene di controllare era e resta un mistero. Nelle conferenze stampa i portavoce dell’Uck parlano continuamente di vittorie e successi, ma si trincerano dietro al segreto quando gli chiedi nomi, date e località. Dai primi di maggio i serbi vengono accusati di aver utilizzato armi chimiche. I portavoce dell’Uck sono pronti a darti anche i nomi di due bambini, uno di sei e uno di dieci anni, rimasti colpiti dai gas. Ma da allora ad oggi non è arrivata nessuna evidenza, nessuna testimonianza diretta.

L’ingerenza umanitaria (secondo la Nato) Sul fronte umanitario le cose non vanno meglio. Dalla fine di aprile l’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) parla di profughi utilizzati come “bomba umana” dal regime di Milosevic. Gruppi di centomila esseri umani deportati da un confine all’altro in attesa di essere spediti a intasare la macchina degli aiuti umanitari in Albania o Macedonia. La fonte della notizia è il comandante in capo della Nato generale Wesley Clark che l’annuncia personalmente in una conferenza stampa a Kukes verso la fine di aprile. Da allora tutti si aspettano le foto dei satelliti Nato con le immagini delle colonne di profughi in marcia nel Kosovo. Ma le foto non arrivano. In cambio al confine albanese di Kukes e Morini si diffonde una strana frenesia dell’evacuazione. I campi profughi devono venir evacuati in fretta. C’è bisogno di campi vuoti per accogliere la bomba umana dei centomila all’atto dell’arrivo. Di sfuggita si fa capire anche che la zona non è molto sicura. Anche se fino ad oggi qui non è mai piovuto un solo colpo di mortaio mentre tutte le altre zone di confine sono state regolarmente bombardate dai serbi. Viene così allestita una singolare operazione militar-umanitaria. La Nato mette a disposizione i suoi mezzi e i suoi uomini per permettere una sollecita evacuazione dei profughi. La gran parte dei rifugiati viene però evacuata con camion albanesi. Intanto la Nato fa mettere in sesto, sempre ufficialmente per permettere una più veloce evacuazione, l’aereoporto di Kukes e le strade di collegamento. Prima ancora che i lavori inizino i camion albanesi sfollano profughi al ritmo di cinquemila persone al giorno. Intanto in direzione opposta sfilano colonne di mezzi militari Nato sempre più consistenti.

Preparativi per l’attacco di terra A chi ingenuamente chiede se potranno servire per la preparazione di un attacco di terra viene risposto che si tratta di operazioni puramente umanitarie. Chi si permette di accennare alla possibilità che la zona di Kukes finalmente svuotata dai profughi possa diventare l’avamposto albanese dell’attacco di terra viene seccamente smentito. Dirottati a seguire le operazioni umanitarie i giornalisti presenti nella zona vengono tenuti rigorosamente lontani dalle unità Nato con compiti prettamente militari. Anzi ufficialmente queste unità non esistono. Stessa cortina di silenzio sulle attività, fin qui misteriose, degli elicotteri Apache. Le zone dell’aereoporto di Tirana in cui sono schierati sono assolutamente inaccessibili alla stampa. Praticamente impossibile sapere le altre basi in cui saranno dislocati. In Macedonia intanto i giornalisti rincorrono colonne, treni e campi di profughi che si materializzano e si volatilizzano nello spazio di una notte. Esseri umani trasformati in ectoplasmi invisibili da misteriosi accordi e segrete trattative tra il governo di Skopje e i comandanti dell’esercito serbo. Alla fine la verità di quel “gioco grande e sinistro” a cui accennava Jacky Rowland è forse semplicemente una sola: vi stiamo raccontando una guerra che nessuno, fino ad oggi, ha potuto vedere con i propri occhi.

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