
La pace oltre l’immaginazione
Sfortunatamente il mondo non è la casa di riposo per le filastrocche e gli aneddoti di Enzo Biagi. Sfortunatamente il mondo si regge sulla canna dei fucili, e il coraggio di vivere si appoggia sempre volentieri sulle spalle di chi dimostra di saper menare meglio degli altri le mani. Nell’offensiva contro Belgrado non è coraggio, ovviamente, quello che sostiene l’alleanza atlantica, ma la profonda emozione di chi si sente dalla parte della giusta causa: mettere la Serbia in un angolo e vederla picchiare sonoramente dal pugile Nato per punirla della straripante ingiustizia che compie ai danni della popolazione kosovara. Che mettere kappao la struttura politico-militare del “popolo statale” serbo non sia la soluzione della questione Kosovo è evidente a tutti. E non occorre certo accusare di realpolitik pilatesca il Papa e la diplomazia vaticana per evitare di fare fino in fondo i conti con una tragedia che solo un generale invasato potrebbe pensare di risolvere sul piano militare. In effetti, anche il più pragmatico e il meno papista degli opinion maker internazionali, il londinese The Economist, ha messo in copertina tutti i dubbi sul caso Kosovo: “Victim of Serbia or Nato?”, “vittima della Serbia o della Nato?”. Comunque sia, risolutamente papisti (per le ragioni suggerite nel precedente editoriale), noi non discuteremo se e fino a che punto Giovanni Paolo II è in linea con la tradizione e il dogma; noi ci limitiamo a seguirlo e a sostenerlo nel suo appello a tutte le parti in causa. E questo perché sappiamo, siamo certi per esperienza, che la guerra come continuazione con altri mezzi della politica è servita e servirà sempre gli interessi delle classi dirigenti, ma non serve, non è servita e non servirà agli interessi dei popoli. È troppo evidente che bisogna stare con i più deboli, i perseguitati, gli afflitti. Ma il Padreterno non è né Clinton né Milosevic. E dunque continuiamo a pensare che bombardamenti e repulisti etnici non serviranno ad altro che a rinfocolare l’odio e l’inimicizia tra i popoli. Si dice che non esiste alternativa tra un’inazione giuridicamente corretta e un’azione eticamente necessaria. Noi diciamo che per prima cosa bisogna portare soccorso alle popolazioni espulse e deportate dal Kosovo, e su questo punto ci pare che l’Italia e l’Europa si stiano dando da fare in modo adeguato ed efficace. Ma insieme si deve forzare l’immaginazione perché si pensi e si agisca per una soluzione politica del conflitto. Non è un appello pacifista, è la fiducia nella ragione e nella responsabilità per il mondo comune. Sicuramente apparirà fragile il richiamo a un Destino comune, a una pietà che dovrebbe consigliare un senso di appartenenza alla vita e dunque al suo rispetto in tutte le forme che essa assume al di là della storia, della politica, della religione e dell’etnia. Ma in fondo sono queste le ragioni profonde che fanno confidare più sulle possibilità del dialogo tra gli uomini che sulla capacità persuasiva delle armi. Noi in fondo siamo a questo punto, come dice il Papa, nel punto dove la pace rimane una possibilità sempre presente. Questa è la vera sorpresa che ci aspettiamo dalla fantasia delle diplomazie. TEMPI
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