La versione di Clarence Thomas

Di Lorenzo Albacete
22 Febbraio 2001
La settimana scorsa, i mezzi d’informazione nazionali hanno posto l’accento sul bombardamento dell’Irak, sulla visita del presidente Bush in Messico e sulla sua proposta di riduzione fiscale

La settimana scorsa, i mezzi d’informazione nazionali hanno posto l’accento sul bombardamento dell’Irak, sulla visita del presidente Bush in Messico e sulla sua proposta di riduzione fiscale. Nulla a paragone dell’attenzione riservata a due storie legate all’ex presidente Bill Clinton. Una è quella del persistente sospetto (ora un’indagine giudiziaria formale) che alcune delle grazie dell’ultimo minuto del suo mandato fossero motivate da considerazioni economiche e politiche. La seconda – quella più affascinante – riguarda l’ubicazione del suo ufficio, pagato con i soldi dei contribuenti (oltre a uno staff e servizio di sicurezza permanenti, il governo federale stanzia per tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti fondi con cui essi aprono e mantengono un proprio ufficio personale in qualunque luogo del Paese desiderino). Clinton ha dapprima scelto un palazzo di Manhattan, dove i costi sarebbero stati assai più alti di quelli di tutti gli altri ex presidenti ancora viventi. Ma poi (non appena si è accorto che la sua decisione si sarebbe rivelata pericolosamente impopolare) ha cambiato idea firmando per un ufficio ad Harlem, il famoso quartiere afro-americano di New York. I notiziari televisivi hanno mostrato l’accoglienza da re riservata a Clinton. Non c’è dubbio: gli afro-americani amano Clinton. Alcuni dei loro leader lo hanno addirittura definito il “primo presidente nero” della storia nordamericana. Ne penetrano perfettamente l’animo: sanno che è moralmente sottosviluppato, ma in lui non scorgono alcun pregiudizio nascosto. È un po’ come la reazione che hanno avuto nei confronti del “caso O.J. Simpson”: “Può darsi che sia un assassino, ma è uno di noi”. Questo è ciò che aspetta i Repubblicani che cercano di fare breccia nella comunità afro-americana. I Repubblicani non convincono gli afro-americani. E questo al di là di ciò che i Repubblicani pensano o delle loro prese di posizione; è qualcosa di più profondo (per molti aspetti, infatti, diversi valori a cui i Repubblicani si richiamano sono più prossimi a quelli tradizionalmente patrimonio degli afro-americani che non a quelli dei Democratici progressisti). Gli afro-americani non si sentono per nulla accettati dai Repubblicani, né ben voluti. La radice del problema sta più nel cuore che nella mente. Proprio la settimana scorsa, il giudice della Corte Suprema federale Clarence Thomas – criticatissimo e per nulla amato dalla comunità nera benché sia egli stesso nero – ha pronunciato un discorso formidabile, vera e propria chiave di volta per comprendere l’attuale situazione della vita politica del Paese. Il giudice Thomas sa che molti afro-americani la pensano esattamente come lui, ovvero che i Democratici progressisti li strumentalizzano mostrando disinteresse per le loro sorti concrete. Per questo i loro sistemi di valori sono inconciliabili. Eppure gli afro-americani non lo diranno mai apertamente per timore delle conseguenze, cioè di essere calunniati in quanto razzisti, sessisti e omofobici esattamente come è successo a Clarence Thomas. Viviamo oggi in una situazione di crescente “totalitarismo delle buone maniere” – ha detto Thomas -, che governa inducendo i timorosi all’autocensura. Concludendo il proprio discorso, ha raccomandato l’esortazione di Papa Giovanni Paolo II, il più grande nemico del totalitarismo che vi sia al mondo: “Non abbiate paura”. Gli afro-americani non sono ancora pronti per ascoltare il giudice Thomas. Ma tutto questo cambierà quando essi si renderanno conto che la mancanza di pregiudizi derivante dalla mancanza di convinzioni morali non significa accoglienza. È questo ciò che rende il “totalitarismo delle buone maniere” possibile… e letale.

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