
Il mestiere delle armi italiano? La pace
«Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra». Credo che nessun lettore di Tempi sia così vecchio da ricordare questa canzone, che fu un successo della guerra italiana agli anglo russo americani tra il ’40 e il ’43: una guerra perduta per la vanità del fascismo ma combattuta dagli italiani con dignità e valore. Poi avvenne “la morte della patria” e da allora fu la Nato a organizzare ciò che rimaneva dell’Italia militare, furono le “stelle e strisce” a ridare legittimità alle armi italiane. Esse però non combatterono mai. L’Italia fu, come il Giappone, una portaerei inaffondabile, piuttosto che un popolo combattente. Ora non è più così, aboliamo il servizio militare ma combattiamo con i corpi speciali. Nel sito Internet di Forza Italia, Ragionpolitica.it, le notizie militari sono le più visitate e ciò che più interessa è il Colmoschin. Con la guerra del ’40-43, il nostro fronte andava dall’Egitto al Don ed oggi non scherziamo: va dalla Bosnia all’Afghanistan e anche al nostro corpo aereo dimenticato in Kirghistan. In Afghanistan partecipiamo sia al peace keeping a Kabul sia al peace enforcing ai confini del Pakistan, il territorio più difficile della terra afghana, dove i talebani possono attraversare la frontiera pakistana e dove i nostri soldati hanno evitato recentissimamente di saltare su una bomba. Noi non facciamo la guerra, facciamo la pace, siamo i più amati tra le truppe che sono impegnate, a diverso titolo, nel più difficile rapporto militare di oggi: quello tra forze militari e popolazione “pacificata”. Ci sembra che ciò corrisponda a due tradizioni italiane, tra di loro diverse: quella dei legionari romani e quella delle compagnie di ventura. L’espansione di Roma fu dovuta alla sua estrema capacità di avere rapporti con le popolazioni, cosa che non riuscì mai al suo più temuto avversario, Cartagine. L’impero romano, come quello greco-macedone, fu una cultura capace di integrare i popoli soggetti e di non farli sentire tali. Non a caso Roma usò ampiamente l’alleanza con poteri politici indipendenti e al tempo stesso dipendenti, come quello di Erode in Palestina che fu un successo quanto l’occupazione diretta un insuccesso. I romani non riuscirono ad assimilare gli ebrei. Le compagnie di ventura giungono alla memoria perché gli italiani furono validissimi capitani di ventura e riuscirono molto meglio che nel tempo degli eserciti coscritti. Non è un caso che la vocazione militare dell’Italia emerga quando in essa sono impegnate non le truppe coscritte ma i corpi speciali. In qualche modo occorre una vocazione militare per fare il militare e le forze armate contemporanee sono dunque fondate sui corpi speciali: insomma su chi, per ricordare il più bel film di Ermanno Olmi, ha la vocazione e il gusto del Mestiere delle armi. E torna qui una costante della nostra storia militare repubblicana: diveniamo di fatto truppe ausiliarie degli Stati Uniti, cioè del paese a vocazione imperiale come Roma, appassionata di politica interna e per questo capace di una proiezione imperiale. Siamo tornati imperiali ausiliari. Ma, infine, non eravamo già stati la terra di elezione del Sacro Romano Impero, quindi di stirpe germanica?L’Italia è attratta dall’Impero, anche quando non è il suo.
bagetbozzo@ragionpolitica.it
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