
Bush ha vinto ma il mondo non lo sa
Il presidente americano ha risposto alla sua crisi di consumo con una chiara riconferma della sua politica. Non bisogna dimenticare che il primo atto del presidente nei confronti delle Nazioni Unite era stato il solenne appello all’Assemblea dell’organizzazione a reagire fattivamente alle molte e sistematiche violazioni da parte di Saddam Hussein dei suoi impegni internazionali, a cominciare dall’espulsione degli ispettori delle Nazioni Unite.
Che Bush ritorni ora a rivolgersi alle Nazioni Unite, dopo aver distrutto colui che era stato oggetto delle loro impotenti sanzioni, è un ritorno in condizioni diverse alla situazione di partenza. Ora che l’avversario, anche delle Nazioni Unite, non esiste più, grazie all’intervento della coalizione dei volonterosi, le Nazioni Unite sono chiamate al loro compito: quello di fornire un quadro di legittimazione internazionale all’intervento organizzato dagli Stati Uniti e dai loro alleati nell’esercizio del diritto di autodifesa.
Bush non ha delineato una strategia di uscita degli Stati Uniti come si è impropriamente detto, ma semplicemente ha richiesto l’intervento dell’organizzazione della società internazionale per organizzare l’Irak dopo Saddam. Questo non è neanche il rigetto dell’idea di formare una nazione, anzi l’intervento dell’Onu viene visto proprio con questo obiettivo, quello di creare le condizioni per uno Stato federale in cui convivano in forma di autogoverno le tre comunità che compongono l’Irak. Non a caso, la proposta di risoluzione del Consiglio di sicurezza ha avuto immediatamente il giudizio favorevole di Francia, Germania e Russia, cioè delle nazioni che si erano opposte con il loro veto alla precedente proposta favorevole all’intervento armato.
Ora che questo intervento è avvenuto, nessuno si sente di discuterne la legittimità, ma i suoi stessi avversari si apprestano a cercarvi le loro convenienze, in primo luogo la loro parte nel futuro del petrolio irakeno, come ha chiaramente detto il prima ministro francese. Putin si è limitato a sostenere la conferenza internazionale sull’Irak che aveva già proposto a Berlusconi. Bush non parla nemmeno di ritirare i centotrentottomila soldati americani presenti in Irak e soprattutto non intende lasciare il comando delle forze multinazionali a qualcun’altro che non sia un generale statunitense. L’amministrazione americana intende portare a termine il compito che si è accollata: fare la guardia alla transizione irakena verso la democrazia. Ed è da notare che i discorsi di Bush sono sempre dichiarazioni di intenti a cui sono coerentemente seguiti i fatti.
Si è verificato nel grande silenzio della stampa un altro evento che costituisce un secondo segnale positivo nella guerra al terrorismo: l’esito del summit della Lega Araba, tenutosi lo scorso fine settimana a Tunisi. Benché sia la prima riunione dei vertici dei regimi arabi dopo l’invasione dell’Irak da parte della coalizione, non si è elevata nessuna voce di condanna contro l’“imperialismo” degli Stati Uniti. Non si è chiesto neppure il ritiro immediato delle truppe della coalizione. Ci si è limitati a chiedere, al pari di Chirac, un passaggio reale di poteri ad un governo irakeno. Anzi: per la prima volta i leader arabi hanno riconosciuto ufficialmente l’esistenza di tre deficit nei loro paesi: mancanza di libertà, mancanza di conoscenza, mancanza di pari diritti tra gli uomini e le donne. Per la prima volta in mezzo secolo, ha commentato l’iraniano Amir Taheri: «Il discorso politico nel mondo islamico è dominato in modo sempre crescente dal lessico democratico». Guarda caso: dopo la caduta del regime di Saddam.
In Irak la vita ritorna ai livelli normali, la produzione di greggio è tornata quasi ai livelli anteguerra e così pure la produzione di energia elettrica, il 90% delle strutture sanitarie è stato restaurato, duecentomila uomini sono stati reclutati nelle nuove forze di sicurezza irakena.
Sono tutti scenari che vengono oscurati dalle gesta della “resistenza” irakena. Una resistenza strana a cui aderiscono circa 5mila uomini in tutto su una popolazione di 25 milioni di abitanti: e sono in buona parte arabi non irakeni o iraniani o membri della Guardia repubblicana pagati da Al Qaeda fino a 12mila dollari per ogni inglese o americano che prendono: vivo o morto. Bush ha vinto la sua guerra in Irak, ma il mondo non lo sa ancora. E neppure l’America.
bagetbozzo@ragionpolitica.it
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