L’ignavia del poeta

Di Gian Micalessin
07 Ottobre 2004
Quando ormai le braccia dei bambini vaccinati dal nemico sono stae amputate, in Irak arriva Benigni per raccontare al mondo i buoni sentimenti. Insensibili alle teste mozzate dalla resistenza, il poeta e il regista dimenticano la storia e la realtà. Nel nome di una pace che Zarkawi cancellerà con il coltello

Il vantaggio di poeti e registi a differenza degli uomini comuni è di poter andare nei posti che vogliono nei momenti in cui preferiscono. Benigni in Irak preferisce andarci adesso. Non ha mai pensato di buttarci un occhio quando un uomo solo al potere decideva il destino di 25 milioni di comparse. Quando quell’uomo solo decise di far riemergere dai musei della guerra trincee e nubi d’iprite. Quando il confine di due paesi con una sola consonante a far la differenza si trasformò per otto lunghi anni in un immenso sconfinato carnaio. Non ci andò neppure quella mattina del 16 marzo 1988, quando una stizza dell’uomo solo trasformò Halabja e le sue valli tra i picchi del Kurdistan in una silente camera a gas. Quella mattina il poeta dormiva. Il regista riposava. Forse non si voltò neanche dall’altra parte. Aras la mattina del 16 marzo aveva vent’anni. Ne son passati 16 e lo sogna ancora. Notte dopo notte. «Scendo nella cantina. è piena di corpi. Non li riconosco. Chiamo mio padre, nessuno risponde. Intorno solo cadaveri. Neri, gonfi, irriconoscibili. La bava copre i volti. Gli occhi sono fuori dalle orbite. Vedo solo lei, Rekam, la mia sorellina, il suo vestitino verde. La prendo, la stringo al petto, le tengo la testa. Grido il suo nome. Corro fuori. C’è quell’odore di cipolle e gas da cucina. Le alzo il capo. Gli occhi sono bianchi, vuoti. Svengo. Qualcuno mi porta via, in Iran. Torno dopo tre giorni. Davanti casa la pala di un bulldozer raccoglie i morti. La cantina è vuota. Rekam, le altre sei sorelle, i miei tre fratelli, mio padre, mia madre sono tutti sottoterra, in una fossa. Da allora, ogni notte, il ricordo mi viene a cercare». Cinquemila morti quella mattina, ma il poeta oziava. Dormiva anche quando un’altra bizza cancellò il Kuwait dal mondo e la rabbia per vederlo restituito alla geografia convinse l’uomo solo a cancellarvi sciiti e curdi. Per un quarto di secolo il poeta ha preferito non immaginare, non raccontarci cosa succedesse nelle segrete dove si consumava chi non aveva voluto vivere da comparsa. No, il poeta e il regista dei buoni sentimenti per 25 anni sono rimasti in letargo. Si risvegliano solo ora. Di per se non è una colpa. Il poeta, l’artista e il regista a differenza dei comuni mortali possono svegliarsi quando più a loro aggrada. Non possono però ridurre il reale a quelle loro comode risicate ore di veglia. Benigni può fare tutti i film che vuole, può ambientarli dove più gli piace. La follia è confondere film e tragica verità. Confondere un caleidoscopio di sentimenti da cui il poeta osserva il mondo con la realtà stessa. A farlo si rischia grosso. Ad agosto un uomo non più con noi ce l’ha dimostrato con tragica, sconcertante puntualità. Il povero Enzo Baldoni che una notte d’estate guarda le stelle e dice «vado a raccontare l’Irak» è un po’ il poeta del film di Benigni. Pensa di camminare in un film, ma calpesta la guerra vera. Ci scherza, ci gioca, s’illude di trovarci i buoni sentimenti. S’illude di poterli spiegare anche ai propri rapitori. Ve la ricordate la sua faccia nel video girato dai suoi assassini? Enzo Baldoni è un uomo prigioniero, ma sicuro. Sicuro di poter raccontare, spiegare, convincere. Crede nei buoni sentimenti, nel dialogo, nella comprensione. Non s’è reso conto di essere agli occhi dei suoi assassini semplicemente un diverso, un infedele, un altro da sé. Un “nulla” da tenere in vita fino a quando sarà utile per il ricatto da giocare. Non se ne accorge lui, non se ne accorgono i suoi amici in Italia, arrovellati a cercar di spiegare che lui non è un nemico, ma un pacifista, un giornalista di sinistra. E giù la lista dei buoni sentimenti per cui uno non merita di morire e gli altri forse sì. Ma loro neppure ascoltano. La lista non è neppure finita e Baldoni è già un rivolo di sangue, una smorfia di morte nella sabbia. Ecco, Baldoni è la tragicità del poeta al cospetto della crudeltà della guerra. Il buon sentimento e le buone parole cancellate dal coltello di Zarkawi.
I cattivi maestri che c’invitano a guardare il viaggio di un poeta e trasformarlo in realtà ci vorrebbero sconcertati, inerti e sorpresi come il povero Baldoni di fronte alla crudeltà della guerra. Ci vorrebbero, come gridava il pacifismo imbelle della Guerra fredda, «meglio rossi che morti». Ci vorrebbero silenziosi e compiacenti con le dittature. Ci vorrebbero rassegnati e umili davanti all’orrore. Ci esigono spietati ed inclementi con il nostro universo di valori condivisi. Temiamo che anche il poeta in viaggio d’Irak ci canterà la stessa canzone. Noi gli risponderemo con le parole del colonnello Kurtz di “Apocalypse Now”: «Non c’è nulla che io detesti più dell’odore di pace e delle bugie». Gli contrapporremo sempre e ovunque quel discorso sulla guerra e sull’orrore che non racconta tutta la guerra e tutto l’orrore, ma un po’ te lo fa capire. Il colonnello Kurtz, un gigantesco Marlon Brando di 25 anni fa, interpreta allo stesso tempo Zarkawi ed il suo mattatore. Il colonnello rinnegato che ha combattuto l’orrore e ne è diventato prigioniero. Il colonnello che mette in mano al capitano la testa del suo amico. Il colonnello amico dell’orrore che porge la propria testa al capitano perché lo liberi da quella convivenza insopportabile. Leggetelo, riascoltatevelo quel discorso.
«Ricordo quand’ero nelle forze speciali… Siamo andati in un accampamento per vaccinare dei bambini, siamo andati via dal campo dopo averli vaccinati tutti… Un vecchio in lacrime ci raggiunge correndo, non riusciva a parlare… Allora tornammo al campo, gli uomini erano tornati e avevano mutilato a tutti quei bambini il braccino vaccinato… Stavano lì ammucchiate, un mucchio di piccole braccia e mi ricordo che io ho pianto come una povera nonna, avrei voluto cavarmi tutti i denti, non sapevo neanch’io cos’avrei voluto fare, ma voglio ricordarmelo, non voglio dimenticarmelo mai, non voglio dimenticarlo mai, mi dicevo, e ad un certo punto ho capito come se mi avessero sparato, se mi avessero sparato un diamante, come se un diamante mi si fosse conficcato nella fronte… e mi sono detto: “Oddio che genio c’era in quel gesto”, la volontà di compiere quel gesto, genuino, completo, cristallino, perfetto… Allora ho realizzato che loro erano più forti di noi perché riuscivano a sopportarlo».
Le due Simone della generazione educata alla pace sono le perfette protagoniste di un film sui buoni sentimenti nell’Irak degli orrori. La stolida rappresentazione dell’ignavia. Protettive con i propri rapitori, compassionevoli con gli iracheni, solidali con la resistenza. Indifferenti ad un uomo in gabbia e alle sue catene, a due teste mozzate, ai pezzi di bimbi lasciati nelle strade dalle bombe dei resistenti.
Della compassione incominciò a parlarci Aristotele. Continuarono riprendendo alla lettera la sua definizione Hobbes, Cartesio e Spinoza: «è il dolore causato dal male che colpisce qualcuno che non lo merita e possiamo aspettarci possa colpire noi stessi». Per le due Simone, educate alla pace è un sentimento ancora sconosciuto. Un nulla che le fa restare silenti, indifferenti di fronte ad un uomo in gabbia. Duemila anni di pensiero buttati via. Duemila anni in cui l’uomo combatteva, lottava con le armi e con il furore per conquistarsi la libertà, per viaggiare, per conquistare nuovi mondi. Perché solo dal furore di chi sa difendere se stesso, il proprio mondo e i propri valori nascono libertà, pensiero, indipendenza. Ma quei duemila anni di storia e guerre, in 45 anni d’illusoria e privata pace di un Europa congelata dal brivido nucleare, sono diventati un nulla senza più significato. Il Muro di Berlino è caduto da 15 anni, ma per i suoi cantori la parentesi della storia è diventata la realtà. Continuano a suonare il loro disco stonato. A trasmetterci la nenia dei buoni sentimenti. A scordare i valori di fondo. A illudersi di un’impossibile pace con un nemico né sconfitto, né tanto meno combattuto. A dimenticare la compassione per i propri simili. Non è perfidia, non è cattiveria, è solo stolida, banale ignavia. Ma alla luce del mondo reale i buoni pensieri sono come le ali d’Icaro. Rischiano di sciogliersi e farci precipitare dal cielo delle illusioni nell’abisso degli orrori.

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