Sempre sotto tiro
Baghdad, 23 aprile 2004
Il Fokker sprofonda a vite nel cielo, punta quell’immenso quadrilatero, scende a cerchi concentrici. Che ci faccio qui? Il pilota australiano tira su, sul filo del vomito. È bravo, gran bravo pilota. Stessa manovra evasiva ogni giorno per evitare missili, cecchini e lanciagranate. Per scendere incolume. L’aereo è pieno di contractors. Che parola del cavolo. Odio i termini stranieri. Ma come chiamarli? “Contrattisti” suona ancora più brutto. Sono di due categorie: contractors da battaglia e da ufficio. I primi momentaneamente senza armi hanno volti ingrugniti, menti squadrati, bicipiti grossi e tatuati. Occhi vacui. Mi sembrano tutti figli di una sottocultura che non è più quella del capitano di ventura o del mercenario africano, l’affreux degli anni Sessanta. Sono travet dell’incerto. Gente perfettamente addestrata a reagire in una situazione di pericolo, ma assolutamente incapace di prevederlo. O di distinguerlo. Da questo punto di vista sono più in balia degli eventi di noi giornalisti. Almeno noi abbiamo una visione di fondo del paese. Sappiamo con chi parlare e con chi no. Sappiamo chi ti può uccidere a sangue freddo. Loro no, devono scappare da tutti, stare alla larga da tutti. Farsi odiare da tutti. La loro unica difesa sono le armi. Ma se hai contro un intero villaggio, cosa fai? Quando finiscono i proiettili e non i nemici sei fregato. È capitato ai quattro americani massacrati a Falluja, è capitato al povero Fabrizio Quattrocchi e ai suoi amici ancora ostaggi. Nel loro mestiere non ci vedo nulla d’eroico o affascinante. A differenza dei veri mercenari, mi sembrano una massa di buttafuori paracadutati in una landa sconosciuta. Rischiano grosso senza sapere perché. Sono un grosso esercito a cui qualcuno ha tagliato, per ragioni di budget, l’intelligence e le comunicazioni. Sono un rinoceronte cieco nella foresta. Spero almeno guadagnino bene. Poi ci sono i contractor da ufficio. Parlano di ferie e delle loro case lontane, di pratiche da sbrigare, di conti da sistemare. Di mutui e alimenti. Sono signori e signore di mezza età prigionieri dei giubbotti antiproiettile e di un mondo ostile. Spero non rischino troppo e guadagnino di più.
Poi ci sono io. Ho la sensazione che questa volta sia più rischioso del solito, che le ultime sottili linee rosse siano state scavalcate, che non valga più nulla e niente. Ma non si potrà star chiusi in albergo: tanto valeva scrivere da casa. Bisognerà cercar di capire, di vedere. La mia posizione sull’Irak sta mutando. Ero contrario alla guerra, ma ora quello mi sembra non avere più alcuna importanza. È come se in questi dodici mesi fosse passato un secolo. Mi sento scevro da pregiudizi. Non conta più se gli americani hanno fatto bene o male ad invadere questo paese. Solo una sinistra ideologica e un po’ becera può continuare ad usare quelle argomentazioni. Solo una destra un po’ grossolana può continuare a sperare ancora nelle armi di distruzioni di massa nascoste troppo bene o in una democrazia da costruire. Macché democrazia in Irak. Quello che conta è come venirne fuori. Come venirne fuori tutti, gli Stati Uniti, l’Europa, il mondo arabo e gli irakeni. Non certo fuggendo come la Spagna. Fuggendo rischiamo di trascinarci questa guerra alle porte di casa. Bisogna bloccarla qui. Forse non sono scevro da pregiudizi.
Baghdad, 24 aprile 2004
Fino a ieri erano le eminenze grigie del negoziato. Il trait d’union con i rapitori. L’incarnazione della trattativa. Oggi sembrano aver cambiato volto e idea. Lo capisci dalle prime battute della quotidiana conferenza stampa alla moschea di Umm al Quran, la sede dell’Al Ayat Ulema, l’associazione degli ulema sunniti, considerata il principale anello di collegamento con i rapitori di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio.
Oggi di quei tre ostaggi Muthanna al Dari, figlio del segretario generale degli ulema sunniti e loro portavoce, non vuole neppure sentire parlare. «Il dossier in questo momento è chiuso. Non vogliamo più affrontare l’argomento perché rischia di intralciare le trattative per Falluja. Ora vogliamo concentrarci solo sul negoziato con gli americani per salvare le vite dei nostri confratelli assediati». «Che significa?», chiedi. «Non trattate più? Non vi assumete più responsabilità?». Muthanna regala un sorriso ambiguo e ripete le stesse parole: «Abbiamo già fatto quel che potevamo, il dossier per ora è chiuso. Non rientra più nelle nostre priorità».
Sceso dal palco, allontanatisi i giornalisti delle testate internazionali, Muthanna al Dari sfodera lo stesso sorriso. Gentile, ma sfuggente. «Perché mi fate queste domande? Rivolgetele al vostro governo. Sono loro ad aver detto di avere la situazione sotto controllo, noi non l’abbiamo mai detto».
Più che negoziatori o mediatori questi ulema mi sembrano gli ideologi. Forse non conoscono i volti dei manutengoli del sequestro, ma sono loro a gestirne tempi e modi. E noi giornalisti stiamo costruendo la loro fortuna.
Baghdad, 26 aprile 2004
I bimbi danzano, tenendosi per mano, alzando al cielo brandelli di divisa bruciata. Danza macabra, danza di vittoria. Sotto quei piedini già feroci tremano i relitti carbonizzati, si sbriciolano vetri anneriti dal fuoco, cadono brandelli di vernice affumicata. Due ore fa erano tre Humvee pieni di soldati, ora sono scheletri spolpati. Le ambulanze hanno portato via i cadaveri di due soldati americani. Chi è sopravvissuto se n’è andato scortato dai carri armati arrivati in soccorso. Dieci metri più in là un pneumatico si consuma in un pinnacolo di pece vischiosa. Nel cielo sale il canto dei fanciulli del nuovo Irak. «Morte agli americani! Bush, vieni a riprenderti i cadaveri dei tuoi soldati!».
Non è il Vietnam come azzarda qualcuno, ma sembra la Somalia. L’odio è cresciuto a dismisura. Da qualche settimana quei bimbi sono su ogni relitto. Prima non succedeva. Il mio termometro dell’odio segnala tempesta.
Falluja, 1° maggio 2004
Il volto coperto dalla kefiah bianca sputa rabbia. Il kalashnikov e il braccio destro si alzano e si abbassano minacciosi. Per un attimo la canna si ferma all’altezza dei nostri occhi. «Italiani? Non va bene, non dovete venire qui! Dovremmo uccidervi perché siete alleati degli americani. Una volta eravate amici, adesso non lo siete più. Andatevene, andatevene il più in fretta possibile». Intorno ci sono case distrutte, strade deserte, fetore di cadavere. Jolan, il quartiere nord-occidentale di Falluja, è un gruviera derelitto e rabbioso. Dal suo ventre spuntano, uno ad uno, ragazzi e uomini in armi. Hanno volti coperti, kalashnikov in mano e bombe a mano alle cinte. Ma poco altro. In giro non si vedono (ma non significa che non ci siano) lanciarazzi anticarro, né mortai, né qualsivoglia arma pesante. «Ditelo, ditelo ai vostri amici americani – grida un’altra kefiah infuriata –: loro hanno aerei e bombe laser, ma noi li abbiamo sconfitti solo con questi fucili».
Gli americani sono lì, ottocento metri oltre quella terra di nessuno segnata dalla stazione ferroviaria e dai binari abbandonati. Tre blindati si muovono in parallelo, inquadrano le nostre due jeep in movimento su questa cornice di case abbandonate, sventrate, bruciate. Un campo di battaglia lungo un chilometro su cui siamo pedine in balia degli eventi.
Il guerrigliero in kefiah bianca non era il solito esagitato incontrato su mille campi di battaglia. Lui e i suoi potevano sparare per davvero. E non erano per nulla entusiasti di denunciare al mondo l’“aggressione americana”. Loro combattono e se ne fregano di raccontarlo. A loro i giornalisti non servono. Dai loro occhi capivi che il centimetro tra il grilletto tirato e quello rilasciato non è una vita, ma solo un banalissimo centimetro. Per gli americani incapaci di distinguere potremmo essere bersagli mobili. Per qualcuno che non vediamo ostaggi da rapire. Ci sono venuto, ho capito cos’è Falluja, ma il gioco vale ancora la candela? Sono io che invecchio o è questa guerra ad aver spazzato via tutte le regole?
Baghdad, 7 maggio 2004
Fino allo scorso agosto lavorava in un negozio di pneumatici di Sadr City, il quartiere sciita di Baghdad. Una sera d’agosto non tornò. Sua moglie e i suoi quattro figli non lo videro per quattro mesi. Da una settimana lo sta guardando tutto il mondo. Ora si guarda anche lui. La sua foto brilla nel verde dello schermo. Sette corpi nudi ammucchiati davanti al sorriso di una donna aguzzino e le braccia incrociate di un suo collega nelle segrete di Abu Ghraib. Una immagine così pesante da schiacciare anche l’ultima grande potenza. Poi la stessa ignobile immagine dall’altra parte. Un grumo di sederi nudi in equilibrio. «Io sono questo», sussurra Ashim. Il dito indica una coscia e una scritta a pennarello. La mano si chiude davanti agli occhi, asciuga le lacrime: «Non posso neppure ricordare, m’hanno rovinato la vita».
Ma la storia di Ashim è devastante per altre ragioni. Parlandoci scopri che quella devastante sessione di umiliazioni fotografata minuto per minuto fu solo la punizione per una rissa con un kapò irakeno. Che l’orrore non serviva a far parlare uomini a conoscenza di stragi o attentati. No, qui l’orrore era solo un passatempo nella banalità delle giornate. Mi sembra devastante e incomprensibile. Vorrei scoprire una regia segreta dietro quelle foto, una guerra tra Cia e Pentagono per far fuori il segretario alla Difesa con l’orrore di quelle immagini. Invece erano solo figlie della banalità di un male minore. Continuo a chiedermi come gli americani riescano a collezionare questa serie di passi falsi. Se li avessero programmati non ci sarebbero riusciti.
Najaf, 14 maggio 2004
«Kella Amrika, morte all’America, kella Israel, morte ad Israele». La combriccola di tagliagole è pronta alla battaglia. Lui, il capo, ha il volto incappucciato in similpelle, un kalashnikov, quattro giberne piene di caricatori e un furgone carico di suoi simili. Il più giovane avrà 14 anni, agita il mitragliatore al ritmo del suo duce, si eccita al ritmo degli slogan. Sono in otto. Due mascherati davanti, sei sul pianale. «Gli americani sono nel cimitero, è venuto il tempo di morire», grida l’incappucciato. «Siamo pronti!», rispondono da dietro. Lui ingrana la marcia, il cassone sobbalza, i morituri s’aggrappano per non cadere, lo sgangherato furgone bianco e il suo carico di gladiatori sussulta per le strade deserte di Kufa. Sono le nove di mattina. Sei chilometri a sud-ovest già si combatte. Cinque carri armati americani avanzano nella “valle della pace”, l’immenso, eterno cimitero sciita di Najaf. Là, tra i tumuli e i camminamenti dove da secoli milioni di fedeli sotterrano i loro cari, s’annidano i mortai dell’esercito del Mahdi. La notizia della battaglia s’è sparsa in un attimo, ha fatto piazza pulita di passanti e curiosi, li ha sostituiti con un brulicare di volti mascherati, mitragliatrici appostate ai tetti, tubi di lanciagranate. Dal minareto il muezzin chiama alla battaglia. «È il momento di combattere gli infedeli, andate e siate pronti al sacrificio… Se morirete oggi sarete martiri per sempre». Loro vanno. Noi li seguiamo. Najaf, la “terra alta”, la più santa delle città sciite ed il suo santuario dorato, ultima dimora dell’imam Alì, il più santo degli imam sciiti, sono ora campo di battaglia. Siamo venuti anche qui. C’avevo già messo piede più di due settimane fa assieme a Tony Capuozzo e al suo cameraman. Ci avevano fermati, sequestrati per un’oretta e poi liberati. Era andata bene, ma non avevo capito niente. Oggi abbiamo passato l’intera giornata con gli uomini di Moqtada al Sadr e i suoi luogotenenti. Il loro capo mi sembra il leader più cinico di questo sconquassato universo irakeno. Si sta ritagliando un posto al sole mandando a morire ragazzini e uomini invasati, male armati e ancor peggio addestrati. Dietro a lui si gioca una partita torbida. Gli americani non lo cattureranno né lo uccideranno mai perché gli serve a tenere in scacco i veri leader religiosi irakeni come l’ayatollah Al Sistani. Finché non dimostra di riuscire a controllare quel trentenne esagitato privo di titoli religiosi, il grande ayatollah ben difficilmente potrà vantarsi di essere l’autorità religiosa con maggior seguito.
Sistani invece aveva lasciato Moqtada emergere dal nulla per far capire agli Stati Uniti come sia difficile gestire il problema sciita senza la sua collaborazione. Ma ora sembra un apprendista stregone spiazzato dal fantasma appena evocato. Mettere la sordina a Moqtada significa schierarsi con gli americani e perdere l’appoggio popolare. Quindi nessuno fa nulla, i ragazzini dell’esercito del Mahdi continuano a inseguire un meritato martirio, gli americani a concederglielo, mentre Moqtada prepara il suo debutto in politica e Sistani attende tempi migliori.
Nassiriya, 21 maggio 2004
Il sole laggiù, all’orizzonte, è una vampata biancastra in una cortina di sabbia e polvere. I quattro blindati la sputano nell’aria, la tagliano a colpi di bandiera. Stendardi rossi e leoni gialli rampanti, le insegne del Reggimento Lagunari Serenissima issate sulle quattro autoblindo in uscita all’alba. A guidarli c’è il colonnello Luigi Scollo comandante dell’11° bersaglieri. Cinque giorni fa coordinava le operazioni durante l’assedio dei miliziani di Moqtada al Sadr alla palazzina della Coalizione provvisoria e alla base Libeccio. Oggi torna sul luogo della battaglia, accompagna sulla vecchia prima linea il suo successore colonnello Emilio Motolese, il comandante dell’entrante Reggimento Lagunari. La città addormentata scorre sotto i nostri occhi e sotto le canne dei mitragliatori. È una delle prime ricognizioni dopo la battaglia della settimana scorsa. La calma della mattina sembra quasi surreale. I mirini inquadrano ogni angolo, ogni figura umana. La fiducia dei mesi passati è scomparsa per sempre. Al suo posto c’è un’attenzione vigile e il dito attaccato al grilletto. Al ponte Alfa il sentiero diventa una gimcana di barricate e fortificazioni. Alla destra i resti spettrali di Animal House, la palazzina fortificazione dei miliziani dell’esercito del Mahdi. Il tetto colpito dai cannoni dei nostri Centauro sembra sfondato dal pugno d’un gigante. Poi si entra. È la prima volta da quando la base Libeccio è stata evacuata. Il colonnello Scollo ed il suo successore si dirigono verso la palazzina abbandonata. Il sangue del caporale Matteo Vanzan è ancora lì sul pavimento. Strisciate vermiglie tra scatolette consumate, caricatori svuotati, mura lacerate dalle schegge. Accanto alla macchia rossa una corona grigia nel pavimento. «È entrato da lì, una sfortuna pazzesca…»; il colonnello Scollo deve riferire al successore com’è morto un suo lagunare, quel soldato arrivato in anticipo rispetto al comandante del reggimento Serenissima. Indica la parabola di quella granata che vola sulle barriere di Ecobastion, supera i sacchetti di sabbia e s’infila come in un canestro nella porta d’ingresso. Un centro perfettamente tragico e mortale.
Lui la chiama sfortuna. Non dice altro. Ma è chiaro che qui i nostri soldati hanno combattuto con le mani legate dalla politica. Niente elicotteri per far fuori i mortai, niente tank per spazzare le postazioni nemiche. Quell’unica sfortunata vittima in tre giorni di combattimenti e migliaia di colpi sparati e ricevuti era in verità inevitabile in quelle condizioni. Anzi, poteva andare molto, molto peggio. Chi è qui lo sa. Chi è qui non è quell’Italia ciarliera, incompetente, disinformata che riempie ore di dibattiti. Chi è qui ha salutato la salma di Matteo Vanzan ed è tornato a fare il proprio dovere. Anche con le mani legate. Certo, non illudiamoci: questa non è una missione umanitaria. Ma non è neanche un’occupazione. È una presenza militare simbolica. Serve a far capire che un numero di nazioni non rinuncia alle proprie responsabilità. Che accetta di restare per cercare di far progredire la situazione irakena, per accompagnare questo paese verso una lontana normalità. Farlo significa anche dimostrare coraggio. E solo con il coraggio terremo la guerra lontana da noi. Andarsene oggi non sarebbe solo scellerato, sarebbe un suicidio.
Baghdad, 29 maggio 2004
Gli americani fanno gli gnorri, l’inviato dell’Onu Lakhdar Brahimi fa buon viso a cattivo gioco, gli irakeni non parlano. Ma la tempesta è passata e Lakhdar Brahimi ha piegato il capo. La nomina di Iyad Allawi, designato dal Consiglio di governo irakeno a guidare l’esecutivo in carica dal prossimo 30 giugno, è cosa fatta. E lo sgambetto all’Onu ora è doppio. A ventiquattro ore dall’imposizione di Allawi è pronta anche la lista di ministri che lo affiancheranno. L’inviato dell’Onu potrà al massimo sottoscriverla. La manovra ha il sapore della beffa.
Brahimi, il grande demiurgo, sembra declassato a revisore dei conti. Venerdì, in sua assenza, era stata decisa la nomina di Allawi, ieri è stata approvata la lista dei principali ministri. Di fatto il Consiglio di governo ha prima scippato all’Onu la nomina del nuovo premier, poi si è autoreplicato. Ma con la complicità di chi? Secondo alcune voci la battaglia per Allawi segnerebbe il gran ritorno di Colin Powell. Dopo aver fatto fuori Donald Rumsfeld e il Pentagono, l’ex generale nero avrebbe riportato l’Irak sotto il controllo del Dipartimento di Stato con la complicità della Cia. Allawi sarebbe figlio loro.
Baghdad, 8 giugno 2004
Gli americani hanno liberato i nostri ostaggi, ora ci vorrebbe qualcuno che liberasse l’Italia dalle polemiche. Mi sa che qualcuno preferiva vederli tornare morti.
Amman, 1° luglio 2004
Me ne vado dopo oltre 75 giorni. È stata lunga, ma sono successe e cambiate un sacco di cose. Ho qualche speranza in più. Allawi è un buon leader. L’incognita è se riuscirà a sopravvivere. Quando l’ho incontrato m’ha fatto un’ottima impressione. Ma dovrà continuare a correre e non mollare mai. Per gli americani l’esperimento per ora è finito. La loro resterà una presenza militare nelle basi fuori dai grossi centri. Resteranno lì a fare la guardia al Medio Oriente, a meno che un secondo mandato di Bush non ridia vigore alle aspirazioni neocon. Allora gli esperimenti potrebbero ricominciare. Saddam Hussein oggi è in televisione, ha ancora un bel po’ di energie, ma alla lunga la sua immagine si sta affievolendo. Il vero rischio dopo di lui è il fondamentalismo. In questi mesi l’abbiamo visto emergere un po’ ovunque. Lo vedono gli stessi irakeni. Le moschee sono sempre più piene. In mancanza di leader la religione ha dettato legge. Non sono tutti estremisti, ma ce ne sono molti. Per gli irakeni è una nuova moda, scoperta in ritardo rispetto al resto del Medio Oriente. Per un po’ la grande battaglia continuerà a giocarsi qui.
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