
Il paese visto dal campanile
L’altra mattina in un paese della Valtellina il parroco, che ero andata a trovare, mi ha portato sul campanile della quattrocentesca chiesa madre. Già da ragazza mi piaceva salire nei luoghi più alti delle città, e guardarle da lassù. Dall’alto, una città mostra la struttura originaria, che si diparte spesso come una ragnatela dal duomo: con vicoli stretti, addossati l’uno all’altro, quasi a cercare protezione sotto al campanile. Dall’alto, una città si svela nei suoi tetti, e nel confronto col cielo.
Contenta dunque sono passata per la porticina della chiesa che dà accesso alla torre (la grossa vecchia chiave arrugginita stava nascosta sopra a uno stipite, probabilmente da sempre). Era buio, l’andito, e polveroso: pareva di entrare in un tempo remoto, con quelle scalette di legno vecchissimo che ai nostri passi gemevano come anime sofferenti. Non c’erano più le corde, ma nella penombra mi era facile immaginare i campanari che le tiravano sapientemente: a festa, a Pasqua, e lente e gravi, nei giorni di lutto e di morte. Col fiatone siamo sbucati nella cella campanaria, accanto a grosse benigne campane. Giù in basso, il paese e la valle, distesi in pace in una mattina di sole.
E davvero le vecchie case sembravano addossate alla chiesa come un gregge al pastore, a difesa dagli antichi eserciti che calavano dai valichi. In quel momento è scoccato il mezzogiorno, e le campane hanno preso a suonare, generose, tonanti. Materne scolte di guardia, dall’alto, per sempre, mi sono sembrate.
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