
L’emergenza conti non esiste, ma ci costa la democrazia
Romano Prodi ha concluso la sua Finanziaria e lo ha fatto scegliendo di presentarla come una manovra per la crescita e l’equità. Le misure per la crescita sono quelle che nascono dal taglio di 5 punti del cuneo fiscale e dal regolamento del Tfr fatto a vantaggio dell’Inps, che assumerebbe i trattamenti di fine rapporto dei dipendenti delle aziende con più di 50 addetti che non hanno scelto un altro collocamento per il proprio denaro. La crescita dunque avverrebbe in tempi e modi voluti dal sindacato nelle sue forme storiche derivate dai partiti della prima Repubblica (Cgil, Cisl e Uil, il vero partito di massa dopo la dissoluzione delle forze politiche tradizionali). Confindustria ha protestato, per voce del suo presidente, per venire incontro ai sentimenti dei suoi iscritti, ma in fondo l’accordo coi sindacati è da sempre la politica di Confindustria quando a dirigerla è il gruppo Fiat. Il presidente del Consiglio si è rallegrato del dissenso che ha suscitato, ritenendo che proprio il dissenso sia la misura dell’efficacia della sua Finanziaria. Prodi, cioè, ha deciso una manovra radicale per mostrare un potere radicale, che governa in base a un fittizio stato di necessità e perciò può fare a meno del consenso. E visto che non ci sono elezioni significative sino alle europee del 2009, la diminuzione dei consensi nei sondaggi non comporta la diminuzione di suffragi alle urne. Prodi insomma ha agito come commissario dell’Unione Europea in Italia ed è riuscito a imporre il suo concetto ai partiti alleati dell’Unione, che sono tutti minoritari.
Possiamo dunque considerare la Finanziaria come un piccolo colpo di Stato, dal momento che impone un insieme di minoranze alla maggioranza del paese e lo fa anzitutto attraverso l’uso politico dell’arma più efficace del potere, quella fiscale. Gli elettori di sinistra non conoscevano il programma del governo che hanno votato e non si attendevano che gravasse così fortemente sui risparmi, sulle case e sul controllo fiscale del cittadino. Ma i partiti dell’Unione hanno accettato l’esistenza dello stato di necessità propugnato da Prodi, perché esso, pur fondandosi su uno stato di insolvenza dell’economia italiana che non esiste nei numeri, sospende il gioco normale della democrazia nel paese. Tale pressione sulla società civile non gioverà al rilancio dell’economia, ma gioverà sicuramente alla capacità dei partiti dell’Unione di occupare indisturbati il potere, simulando attraverso i dissensi reciproci una dialettica politica che serve solo a mascherare la comune volontà di esercitare il potere a proprio vantaggio. Ancora una volta la democrazia italiana si vede giocata. bagetbozzo@ragionpolitica.it
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