E ora finalmente la riforma elettorale

Quando queste righe saranno sotto gli occhi dei lettori, il Quirinale avrà deciso e la crisi di governo avrà avuto sviluppi che non posso prevedere. Sin dall’inizio il centrosinistra ha puntato alla conferma di Prodi sulla base dei suoi dodici punti, che ne dovrebbero rafforzare la leadership, e di qualche senatore in più raccattato al Senato attraverso accordi tutti da verificare. È comunque tramontato per sempre il grande sogno di cinque anni di stabilità e di maggioranza risicata ma autosufficiente sotto la guida prodiana. La sicumera del premier azzoppato, comunque sia, non può che appartenere al passato. Però, qualunque sia l’esito della crisi e la forza residua di un centrosinistra destinato a divisioni e fratture tra sinistra radicale e riformista, c’è un tema che si è prepotentemente affacciato sulla scena politica ed è destinato a non tramontare. A prescindere da chi sieda a palazzo Chigi. È il tema della riforma elettorale. Nei giorni della crisi, la necessità di cambiare la norma varata nella legislatura precedente è stata richiamata da esponenti di punta di troppi partiti per rimanere solo un ballon d’essai. E la riforma elettorale impronterà di sé in maniera decisiva il futuro, perché anche i più fedeli sostenitori di Prodi premier hanno iniziato a ragionarvi. Se anche dovesse riprendere il proprio corso un eventuale Prodi bis sulla base di numeri al Senato comunque esigui, infatti, sarebbe necessario abbandonare i toni da muro contro muro che il premier dell’Unione ha inalberato sin dal primo giorno, nella convinzione che solo tenendo alta l’asticella dello scontro col centrodestra la maggioranza sarebbe rimasta compatta. E tanto più Prodi dovesse ricadere in tale errore, che gli è stato fatale, tanto meno potrebbe essere suo il governo all’ombra del quale verificare convergenze bipartisan sulla legge elettorale. Un gabinetto Prodi “blindato” potrebbe al massimo mettere in cantiere una riforma iperproporzionalista, se non la mera manutenzione della legge attuale, come ha proposto il professor Roberto D’Alimonte. Una riforma che non sarebbe una risposta efficace né al problema di raggruppare le attuali forze politiche in formazioni più ampie né al problema della governabilità.
Perciò il cambio di passo nei rapporti con l’opposizione, almeno sui temi istituzionali, per Prodi è dovuto: è lo scotto da pagare per compensare l’errore di inizio legislatura, quando ha voluto monopolizzare tutti i vertici istituzionali della Repubblica. Altrimenti, al nuovo logoramento progressivo di Prodi si accompagnerebbe inevitabilmente il prender piede di un governo diverso, di decantazione, affidato a una personalità istituzionale che accompagni una possibile convergenza parlamentare su uno schema di riforma, per poi chiudere la legislatura con uno o due anni di anticipo, mandando il popolo alle urne. Se questa ipotesi nei giorni scorsi non è stata avanzata al Quirinale da nessuno all’infuori di Udc e Pri, è solo perché i maggiori partiti di entrambe le alleanze sanno che non c’è ancora quella pistola puntata alla tempia delle formazioni minori rappresentata, appunto, dai quesiti referendari regolarmente depositati con tanto di firme. Ma attenzione: non è solo alle formazioni maggiori del centrosinistra che l’ormai inevitabile prospettiva della riforma elettorale come vero fulcro residuo della legislatura chiede un approccio diverso. Anche dal centrodestra tale prospettiva esige toni adatti. Una riforma di convergenza tra le formazioni maggiori dei due poli pretende un approccio politico adeguato. In caso contrario, prima o poi saranno proprio le coalizioni a rimetterci, rimanendo ostaggio dei coriandoli e dei monopartiti personali da rincorrere in Senato.

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