
La cantina dei sogni
Aveva un diario e appena vent’anni, quel tecnico venuto dal Trentino, che ogni sera, invece che perdersi in chiacchiere sulle morose, si rintanava ad annotare lo svolgersi delle giornate trascorse in cantina, laggiù nella cittadina di Epernay nel cuore della Champagne. Innamorato lo era, fin da quando si manteneva gli studi all’istituto di viticoltura di Montpellier facendosi le ossa tra le barbatelle della pépinière per poi trascorrere un anno all’Istituto di Botanica di Geisheim, dove i baroni renani spedivano i rampolli a imparare la microbiologia del loro grande champagne. Dal Reno alla piccola ditta di Epernay il passo fu breve, e quando a 21anni fece ritorno nei possedimenti della sua nobile famiglia, Giulio Ferrari, una rarità nel panorama della Trento bigottina e austroungarica dell’anno 1900, appoggiò le valige e annunciò il suo grande amore: «Signori, da oggi si fa la viticoltura».
I compaesani, per i quali l’uva è uva, o è bianca o è rossa, sotto ci stanno le verze, il pomodoro, il cappuccio, all’inizio non capirono. Il giovane Ferrari non ci pensò e importò nel suo vivaio le barbatelle Chardonnay, il Pinot noir, il Müller Thurgau, il Riesling, il Merlot. Nel 1902, quando le prime 600 bottiglie accatastate nel suo sottoscala vennero stappate il Trentino gridò al capolavoro. Perché il Ferrari era talmente bravo che non si era messo a produrre vino. Il Ferrari faceva lo champagne. Uno champagne che suscitava l’interesse di Bruno Lunelli, gestore di un piccolo negozio al dettaglio di vini da asporto. Uno con pochi soldi e tanta passione, da aspettare che il nobile Ferrari, senza eredi, decidesse di ritirarsi. Prima di lui si fecero avanti i pezzi grossi, come il commendator Angelo Motta e il signor Carpené Malvolti. Tutti a fuggire dal sottoscala di casa Ferrari strepitando “Giulio, sei matto!”. Fu l’assai meno blasonato Lunelli ad entrare in quel sottoscala e non uscirne più. Metà in contanti e metà in cambiali, acquistò per 30 milioni una ditta inesistente, senza stabili né forza lavoro. Allora una bottiglia di Ferrari costava 600 lire e quello che pagò Lunelli fu un prezzo pari a 5 volte il fatturato di un anno. Conditio sine qua non, disse a Ferrari, che lei rimanga qui come capo tecnico. A patto che, rispose Ferrari, finché vivo la sede della ditta rimanga qui, nel palazzo cinquecentesco dei Ferrari, a due passi dal Duomo. Era il 1952.
«Quando Goldoni scrisse i rusteghi non poteva che avere in mente un uomo come il Ferrari – racconta oggi il cavaliere del lavoro Gino Lunelli, presidente emerito della Ferrari F.lli Lunelli spa e terzogenito di Bruno -. Quando sono entrato nella ditta, nel ’58, avevo 19 anni e una scrivania part time con lui. Dalla quale dovevo scappare alle 11 e 29 perché Giulio Ferrari alle 11 e mezzo precise tornava dalle campagne, irrompeva nello studiolo affrescato, e dopo una sborsegata tremenda dovuta alle 80 sigarette nazionali semplici che si fumava al giorno abbaiava “allora? Novità?”. Sedeva alla scrivania, dava una scorsa al giornale, e a mezzogiorno, al suono della campane del Duomo chiudeva tutto e salutava: “buon appetito”». Nel ’75 Giulio Ferrari muore, la ditta si trasferisce e la famiglia Lunelli si dedica all’ampliamento dell’azienda.
«Nella vecchia generazione avere firmato delle cambiali era quasi una colpa – racconta Gino -. Dovevamo lavorare tutti, perché le cose andassero bene. Dai 12 ai 19 anni le operazioni nella vigna venivano organizzate compatibilmente alla fine delle scuole. Ho studiato nei vuoti di tempo, mi sono laureato e ho deciso di seguire mio padre non perché mi interessasse il vino, ma perché ho sempre avuto a cuore tutto quello che poteva significare fare impresa. Creare qualcosa di imprenditorialmente valido, di eccellente». Per Gino l’eccellenza non è mai stata solo una questione di prodotto, «dico sempre: l’importante non è avere soldi, è avere credito. Una vita di imprenditore limpido, trasparente e ricco di valori, ti regala una reputazione. Ma se ci impieghi una vita a fartene una può bastare un solo giorno a mangiartela per sempre». Con queste premesse, Gino e famiglia arrivano a sfornare 50 mila bottiglie all’anno.
La saga dei Lunelli
Aveva 63 anni Bruno, quando i figli gli proposero di trasferirsi a Ravina, alle porte di Trento. Partecipò alla trattativa, ma ad accordi chiusi chiamò a sé i figli: «Ci disse: “A 60 e passa anni le ditte si gestiscono, non si creano. Sapete dove abito per ogni consiglio, e se c’è da mettere una buona parola e una firma in banca ci sono. Ma adesso tocca a voi”. Quest’uomo ci faceva così un dono che noi non potevamo possedere: il credito di una vita, una reputazione. Manco se lo sentisse, in due anni il solito brutto male se lo portò via. Ma godeva ancora di ottima salute quando ci convocò dal notaio e questi lo apostrofò: “Bruno, sei matto, ma che vuoi morir al ricovero, nullatenente?”. Mio padre, che ci aveva appena lasciato tutto, diviso in parti uguali, gli rispose: “Sentimi un po’, io di figli ne ho 5. Se uno di questi mi manda al ricovero gli altri 4 gli fanno un mazzo così. Se sono in due, ce ne sono tre a fargli cambiare idea. E se sono tutti ad essere d’accordo sul mandarmi al ricovero vuol dire che ho fallito come padre”».
Bruno Lunelli non è mai entrato nell’ufficio che i figli avevano preparato per lui a Ravina e che oggi è l’headquarter di un’azienda che produce 4 milioni e mezzo di bottiglie, ha il 28 per cento del mercato italiano, e con 500 mila bottiglie esportate all’estero è al top del suo settore. «C’è da dire che abbiamo anche una bella sfortuna: in questo mondo globalizzato se mi chiamassi Ferragamo non avrei problemi, ma io non faccio vestiti, mi trovo mezzo mondo, Cina, India e giù di là, dove non esiste la cultura del bere, un quarto di mondo musulmano in cui bere è vietato e un quarto di mondo su cui si buttano tutti quelli che come me producono vino». Al nobile champagne la famiglia Lunelli ha affiancato un altrettanto nobile corteggio: «Nella vita di un imprenditore arriva sempre il momento della diversificazione. Nell’84 abbiamo fatto, con una grappa Segnana e un metodo analogo a quello usato per lo sherry, con le barrique messe “a triangolo”, la Solera, una grappa ingentilita dal tempo e dai profumi delle botti del vino. Nell’88 abbiamo cominciato a interessarci a una fonte di acqua oligominerale che sgorga dal contesto fiabesco dei ghiacciai dell’Adamello e della Presanella: Surgiva, un’acqua leggermente mossa che si trova nei migliori ristoranti del mondo».
I capricci di un vecchio signore
E non è finita: alle cantine di vini bianchi Lunelli, che affiancano il “reparto corse” dello champagne, si sono aggiunti i rossi pisani e ben presto si aggiungeranno quelli umbri, come il Rosso di Montefalco e soprattutto il mitico Sagrantino. «Capriccio di un vecchio signore», come lo chiama Gino, la cantina umbra verrà architettata da «un giovanotto di 80 anni di nome Arnaldo Pomodoro: “ti farò una cantina che sarà un carapace”, mi ha promesso». Indica un plastico, Gino Lunelli, dove una scultura a guscio di tartaruga emerge dal verde, e guardando il quale Francesco Rutelli ha esclamato: “questo è un monumento, non una cantina” esentando di fatto il carapace Lunelli dai vincoli dei piani urbanistici provinciali.
Dopo mezzo secolo di carriera, anche i figli di Bruno hanno radunato la terza generazione dei Lunelli. «Alla mia età non ho voglia di nuove avventure e non so niente di un segmento di mercato interessantissimo come quello dei trentenni. Passo dunque il testimone a chi lo conosce meglio di me. Continuo a fare il presidente emerito occupandomi di solidarietà, di qualche consiglio di amministrazione, come Unicredit, Altagamma, presiedo l’Ucid, ho appena dato le dimissioni da Mediobanca, dalla Cattolica Assicurazioni: insomma, la mia carriera l’ho fatta». Largo ai giovanotti, dunque: «Matteo, che è il vicepresidente, e viene fuori da cinque anni in Goldman Sachs; Marcello che si è formato in Sudafrica ed è la fotocopia lavorativa di mio fratello Mauro; Camilla che dal Palazzo di Vetro me l’hanno mandata in Niger e poi a Kampala e che adesso si occupa di rapporti esterni; e infine c’è quello che noi chiamiamo Eta Beta, il più giovane, ingegnere elettronico, che da 15 giorni è a lavorare nelle Filippine. Tutti loro hanno quello che manca a me per sviluppare la mia azienda: visione globale, tre lingue, e soprattutto il senso della squadra: sanno decentrare, sanno delegare, cosa che io, abituato da sempre a fare il padroncino, non ho mai imparato».
A dicembre è stato consegnato a Gino Lunelli il premio Leonardo Qualità Italia. A novembre è stato insignito del premio Ernst Young imprenditore dell’anno. E il 2006 si è chiuso col Wine Business award 2006. Lui si schermisce, ricorda la forza del gruppo: «192 persone tra campagne, acqua e Ferrari. Acquisti tra i 65 e i 70 mila quintali di uva all’anno, di cui solo la minor parte spetta a noi; il resto va ai contadini con i quali abbiamo un contratto sull’onore: il prezzo dell’uva che mi consegni ad agosto sarà quello che detterà il mercato quando diventerà vino». A solo un chilometro e mezzo dall’headquarter di Ravina sorge una delle cinque tenute fiabesche dei Lunelli, la «mia coccola», come la chiama Gino Lunelli, «la più bella villa dell’arco alpino», come la chiama Sgarbi. Villa Margon, del ‘500, a cui non manca un centimetro quadrato dei 48 affreschi, né uno spigolo della piccola galleria d’arte di quadri seicentesca. A settembre, il presidente emerito, che dice di avere fatto il suo tempo, inaugurerà la prima locanda Margon in un agriturismo in via di ristrutturazione. Il tutto rigorosamente stellato Michelin.
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