Il pacifismo farlocco di Khatami (e i nostri politici che se lo bevono)

Il viaggio in Italia dell’ayatollah Mohammad Khatami, presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 1997 al 2005, offre spunto per molte riflessioni. La sua conferenza all’Università Gregoriana su “Dialogo interculturale: una sfida per la pace” è stata di notevole interesse: è un testo colto e attento alle relazioni tra cultura e religione musulmane e cultura e religione cristiane, che inquadra il tema della pace in una fiducia quasi illuministica nel progresso del genere umano. Tuttavia, chi ha pronunziato queste parole non è un filosofo o un religioso qualsiasi, ma un ex presidente iraniano, personaggio rispettato e figura di primo piano nel suo paese, dove nessuno si sogna di boicottarlo o perseguitarlo. Non è che durante i lunghi anni in cui Khatami è stato presidente abbia trionfato in Iran la pace universale e la democrazia. Il regime continuò ad essere tirannico e liberticida – altro che dialogo multiculturale – e quanto alla pace, lasciamo perdere: Khatami è stato grande amico e finanziatore di Hamas e Hezbollah e ha giustificato il terrorismo suicida. Soprattutto, c’è il presente. Khatami non viene dalla luna: il suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad, minaccia senza posa la distruzione di Israele e promuove un’intensa e violenta campagna tesa a negare che lo sterminio degli ebrei da parte del nazismo sia mai avvenuto, oltre a essere in prima fila nel sostenere le azioni anticristiane in ogni parte del mondo. Khatami non ha mai detto una sola parola contro i propositi di genocidio del suo presidente o contro le sue campagne negazioniste. Né ha mai detto una parola contro la brutale repressione del dissenso in corso nel suo paese. Che senso ha allora parlare di pace e dialogo se non si ha il coraggio, diciamo pure il senso morale e la dignità, di dissociarsi da atti tanto efferati? Alla luce di tanta ambiguità, questa messinscena di irenismo dialogante appare una gigantesca manifestazione di ipocrisia e un’abile operazione mediatica in cui Khatami fa la parte del volto umano del regime.
Il guaio è che neppure di ambiguità si tratta. A proposito dell’incontro con Benedetto XVI, Khatami ha dichiarato che le ferite tra cristiani e musulmani «sono molto profonde». «Ci sono molte ferite e non possono essere curate facilmente», ha aggiunto, osservando che un incontro non poteva essere sufficiente a rimarginarle, ma almeno «stiamo facendo uno sforzo per iniziare a curarle». Si noti che questa dichiarazione è venuta in risposta a chi chiedeva se lo strappo causato dal discorso di Ratisbona fosse stato ricucito. Quindi Khatami continua ad avvallare l’idea che quel discorso fosse offensivo per l’islam. Questa dichiarazione l’ha resa dopo l’incontro col Papa, il che è assai significativo. Ciò dimostra che non è stata ottenuta l’abiura che si sta cercando, con le buone e con le cattive, di un discorso che rappresenta una delle poche cose elevate e dignitose che siano state pronunziate negli ultimi anni per difendere i fondamenti della civiltà europea. Riletto in tale prospettiva il discorso di Khatami è povero ed elusivo, perché non riesce a misurarsi neppure da lontano sui temi del rapporto tra religione e ragione.
Restano le immagini dell’accoglienza in ginocchio di una parte del mondo politico italiano a Khatami. Non uno gli ha chiesto di dire una parola contro i propositi genocidi e il negazionismo antisemita di Ahmadinejad. Questa sagra dell’ipocrisia e della viltà non dovrà essere dimenticata in occasione del prossimo giorno della memoria. Da oggi gli ebrei italiani sono più soli.

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