
L’impresa che cura il paese
Bisognerebbe partire con le debite presentazioni, dire per esempio che lui è il direttore sanitario sovrintendente del Gruppo Ospedaliero San Donato (il numero due di Giuseppe Rotelli, per intenderci, lo stesso Rotelli che oltre a presiedere il primo gruppo ospedaliero in Italia è terzo azionista di Rcs Mediagroup, sempre per capirci), nonché vicepresidente dell’Associazione italiana ospedalità privata (Aiop) e presidente dell’Aiop Lombardia. Ma Gabriele Pelissero è, prima di tutto, un imprenditore. E a Tempi vuole iniziare a raccontare così la grande impresa a cui lavora dal 1986: «Tutto nasce alla periferia di Milano da una scommessa».
Di che anni stiamo parlando?
Degli anni Ottanta, anni in cui il sistema sanitario di questa regione e di questo paese era molto diverso da quello di oggi. Alcuni ospedali avevano avuto una prima riorganizzazione con la riforma Mariotti del 1968 e il Piano sanitario regionale della Lombardia del 1974. Ma il panorama era quello di un sistema in cui l’attività ospedaliera era gestita in massima parte da enti pubblici e nel quale la presenza dell’imprenditorialità privata rimaneva complementare e marginale. In questo scenario, gli uomini più capaci di guardare al futuro avevano compreso che presto la sanità avrebbe risentito della pressione di due eventi importanti: da un lato il cambiamento delle caratteristiche demografiche della popolazione. Alla crescita della durata della vita non poteva che corrispondere un aumento delle malattie e della domanda di cure più adeguate. Dall’altro, lo sviluppo tecnologico. Negli ultimi 50 anni la medicina ha aperto a possibilità diagnostiche-terapeutiche inimmaginabili negli anni Sessanta: curare meglio, anticipare la malattia, ridurre la durata della degenza, guarire patologie considerate non guaribili. Negli anni Ottanta dunque alcuni uomini intuirono che queste potenzialità avrebbero presto invocato grandi investimenti in termini di risorse materiali e umane. E che il concetto di sanità doveva essere rivoluzionato prima di tutto a livello culturale.
Un disegno che minava la sfera pubblica?
Un disegno che faceva presagire che la sanità avrebbe dovuto trasformarsi in fretta da un’area di carattere essenzialmente caritatevole e assistenziale, a bassa tecnologia e a bassa capitalizzazione, a un’area ad alta tecnologia e alta capitalizzazione. L’intuizione alla base della crescita di San Donato è stata capire che in questa prospettiva la potenzialità imprenditoriale poteva diventare un perno del servizio sanitario (tradizionale monopolio pubblico) perché capace di provvedere ai capitali, investirli, gestire una risorsa strategica come quella umana. E, soprattutto, di offrire un’adesione avanzata e moderna alla sanità, adottando lo slogan: accettare i vincoli economici per dare un prodotto migliore.
Più qualità spendendo meno, insomma.
Il concetto è quello della grande industria. Pensiamo ai primi cellulari: costavano uno stipendio e avevano scarsissima qualità. In vent’anni sono diventati accessibili a un vasto pubblico e di una qualità sempre più alta. Se questo vale per la produzione industriale, a maggior ragione dovrebbe valere per la produzione dei servizi alla persona: superare l’ottica dello Stato che elargisce a cittadini-assistiti per affermare che una miglior sanità a minori costi è un diritto. Noi abbiamo avuto il coraggio di farlo: accettare la sfida dell’alta qualità con il migliore pubblico intenzionato a vincerla, producendo servizi a costi compatibili e accollandoci gli investimenti. Questo è San Donato all’inizio degli anni Ottanta. Una tradizionale casa di cura della periferia milanese che, interpretando i segni del tempo, vuole diventare un grande ospedale con eccellenza clinica, didattica e di ricerca. Una “pazzia” che contagerà il personale e porterà nel 1992 San Donato a diventare il primo centro di cardiochirurgia in Italia.
Come si arriva a fare Gruppo?
Perché dall’esordio dell’azienda al ’92, analogamente a quanto accade nel mondo dell’industria, la visione imprenditoriale matura di San Donato genera un processo per cui le vecchie case di cura, strutture medio piccole a conduzione spesso famigliare e con una visione limitata delle loro prospettive, arrivano a concentrarsi in aziende più grandi che hanno massa critica, capacità di investimento, professionalità, portando da 1 a 17 le strutture del gruppo in meno di 10 anni. E presto il numero aumenterà, se è vero che una grande azienda è sempre in crescita.
Fateci capire: la Legge regionale 31 dieci anni fa stabiliva in Lombardia pari diritti tra enti sanitari pubblici e privati, promuovendo, di fatto, un concetto rivoluzionario come quello dell’ospedale-azienda. Ma voi siete gli antesignani di questa rivoluzione.
Noi abbiamo fatto tanta strada contemporaneamente alla Legge 31. Una legge che ritengo la migliore riforma sanitaria che i paesi europei hanno prodotto negli ultimi vent’anni. Se consideriamo infatti la situazione di partenza di qualche anno fa dell’Europa ritroviamo uno scenario analogo a quello italiano pre Legge 31: oligopolio pubblico e sanità assistenzialista, per usare termini del management, una situazione pre-industriale. Oggi però l’Europa sta dirigendosi verso una sanità adulta, con una visione matura dal punto di vista industriale, dunque col problema di dare più qualità a costi più contenuti. Questo è il cuore della riforma del welfare europeo: riconoscere che l’oligopolio pubblico conserva una preziosa tradizione diventata però molto costosa in termini economici. Occorre quindi una guida, sia per non perdere il proprio welfare, sia per tornare ad essere competitivi su di esso, partendo da una delle sue fonti principali: la sanità. In Germania è in corso un grande sforzo di riqualificazione della rete ospedaliera tramite ricorso all’imprenditorialità privata; la Gran Bretagna è stata costretta a ricorrervi per soddisfare una domanda a cui il servizio nazionale non era in grado di rispondere; in alcune regioni della Spagna, come in Catalogna, si ricorre ai privati per garantire lo stesso servizio pubblico e l’Olanda ha chiuso l’ultima mutua statale passando l’assicurazione del servizio pubblico nelle mani degli operatori privati. Queste linee di sviluppo la Lombardia le ha applicate con grande anticipo grazie alla Legge 31.
Ed è stata premiata?
Naturalmente. Per capire come, dobbiamo riflettere su due princìpi della Legge 31. Da un lato, ha stabilito che il primo interesse da tutelare è quello del cittadino, un concetto “europeo” dal momento che la Ue pone il costumer, il cittadino, al centro dei suoi servizi cercando di conferirgli il massimo potere possibile. Dall’altro ha applicato il principio di sussidiarietà, stabilendo che tutto ciò che la società civile può fare bene o meglio rispetto all’iniziativa pubblica deve essere perseguito. Questi due princìpi applicati dalla 31 al settore sanitario hanno conseguito risultati di altissima qualità, rilevabili da tre indicatori. Primo: la complessità delle prestazioni. La Lombardia accoglie i malati più difficili d’Italia perché ha capacità di curarli e possibilità di investire. Secondo: la credibilità del sistema. La Lombardia viene scelta ogni anno da 200 mila malati di ogni regione come sede di cura. Terzo: la Lombardia è l’unica regione in Italia con i conti della sanità in equilibrio, nonché l’unica che ha saputo ridurre il carico fiscale dei propri cittadini mantenendo un servizio di altissima eccellenza.
Che ruolo giocate in questo sistema?
Il Gruppo San Donato ha l’8 per cento dei posti letto della Lombardia. Produce il 9,2 per cento dei ricoveri del sistema ospedaliero lombardo e il 13 per cento di tutti i ricoveri di cittadini di altre regioni che scelgono la Lombardia per farsi curare. C’è di più: produciamo il 21,6 per cento di tutti i ricoveri di cardiochirurgia della rete ospedaliera lombarda. Il 21,2 per cento di tutti i ricoveri di chirurgia vascolare. E il 21,6 per cento di tutti i ricoveri di ortopedia. Solo nell’ultimo anno abbiamo inserito 5.862 protesi di anche e di ginocchio diventando l’azienda che mette più protesi in Europa, superando il primato di Berlino. A rimanere ciechi di fronte a quello che è diventato un pilastro del sistema non sono i cittadini, ma una parte della classe dirigente, della politica e della comunicazione, che continua a trattare la sanità privata alla stregua di un parassita. Ma se domani in Lombardia non esistesse più la sanità privata o se le reti ospedaliere fossero nazionalizzate, nell’arco di un anno assisteremmo al crollo della finanza pubblica del paese.
Scegliere un ospedale invece di accettarlo dunque fa bene all’intero sistema.
Nella nostra filosofia aziendale il cittadino-paziente è il centro e il regolatore del sistema, e deve avere il potere materiale di esercitare la sua centralità. Questo ci porta a difendere innanzitutto uno strumento come il sistema di pagamento a prestazione, spesso messo sul banco dell’imputato da chi non crede in una società libera e aperta. Col pagamento a prestazione accade infatti che il cittadino passi da assistito dalla benevolenza dell’ospedale a moderno costumer, figura centrale per la sopravvivenza dell’azienda, a cui tutti devono correre dietro. Questo strumento viene contestato da chi ne teme gli effetti. Perché se il potere passa al cittadino, è sacrosanto che l’ospedale o il reparto che il cittadino non vuole (perché è trattato male, perché costa troppo) ne subisca le conseguenze: se la gente non ci sceglie, si chiude. Da noi lo sanno l’amministrazione, i medici, gli infermieri e lo sa l’ultimo dei portantini. Questa consapevolezza ci ha reso capaci laddove è in gioco la salute e la vita delle persone.
Questa Finanziaria vuole bene alla sanità?
Nel migliore dei casi si tratterà di un’ennesima occasione sprecata. Per completare un percorso di riforma del sistema sanitario nazionale che vada nella direzione di farne un sistema autenticamente aperto, calibrato sull’individuo e con la giusta valorizzazione del ruolo delle regioni la strada è ancora lunga. Del resto cosa davvero ci sia scritto non lo sappiamo: questa Finanziaria non riesce a leggerla nessuno e non va bene. Ci vuole più comunicazione e più trasparenza. Perché cittadino non significa suddito.
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