
Così il prodismo affossa l’Italia
Francamente è interrogativo che non mi appassiona se «la Rai non è una puttana ma la Ciociara». Solitamente sono estimatore di Claudio Petruccioli, né penso gli vada invidiata una presidenza Rai che sin dall’inizio sta in gran dispitto a tutta l’ala barricadera del centrosinistra, convinta com’è che Berlusconi e Mediaset si abbattono e basta, senza mezze misure. E che, dunque, un presidente investito della funzione prima che Prodi vincesse le elezioni abbia un solo dovere: quello di farsi da parte per consentire la nomina di un cda integralmente allineato a Palazzo Chigi. Penso però che questa volta Petruccioli abbia esagerato, per tentare di risalire la china. È spiazzato lui per primo, dalla durezza dell’attacco portato da Repubblica con la pubblicazione dei verbali d’intercettazione sul presunto scandalo Rai-Mediaset. Quell’attacco riporta indietro le lancette del confronto politico sulla tv alla pura ordalia, la prova processuale madre per verificare se stai con le forze del Bene di chi vuole la Rai solo di sinistra, in quanto necessario riequilibrio pluralista della Mediaset appartenente a Lucifero. E l’attacco dell’Inquisizione è tanto potente che un equilibrato dialogatore come Petruccioli, alla fine, deve ricorrere alla parolaccia pur di far passare a tutti il dubbio che egli non può che essere nemico del puttaniere, alias Berlusconi.
Bene, tutto questo avviene in un quadro che cambia notevolmente valore a seconda del punto di vista dal quale lo si osserva. Il bipolarismo tribale e il pregiudizio anti Cavaliere, che torna a prevalere ogniqualvolta questi appare insospettabilmente più forte, rispetto all’avello che gli si era predetto, hanno ottenuto negli anni i seguenti effetti. Mediaset continua a difendere con le unghie e i denti le posizioni che ha conquistato nel mercato analogico nazionale: ma viene apposta ritardata nel passaggio (iperglorificato un tempo) al digitale, nonché fortemente frenata rispetto a ogni sviluppo continentale o sovracontinentale del proprio business o di altri sinergici per via evolutiva. Grandi alleanze straniere sono più complicate, quando su titolo e fatturato gravano ipoteche tanto pesanti, rappresentate dalla ricorrente minaccia di mutare dalle fondamenta il quadro regolatorio domestico. A maggior ragione vengono resi assai più difficoltosi eventuali ingressi in forze senza alleati locali su altri mercati nazionali, perché la politica di quei paesi troverebbe a Roma valide giustificazioni per opporsi: come accadde sul caso ProSiebenSat in Germania, alla dissoluzione dell’impero Kirch che di Berlusconi era socio e buon amico.
La Rai è rimasta com’era. Un carrozzone iperpoliticizzato, ormai privo di qualunque prospettiva di privatizzazione. Telecom Italia, dopo aver perso molti treni grazie a strategie industriali e internazionali ondivaghe, e scommesse finanziarie errate da parte delle diverse proprietà private succedutesi nel tempo, ormai ridottasi da tempo a poco più della difesa dell’ex monopolio nazionale, torna con il nuovo management appena scelto ad avere un rapporto con la politica assai più stretto di quanto avvenisse sotto Tronchetti, e anche sotto Colaninno. A portare la responsabilità di tutto ciò è la lunga cronaca di un decennio di lotte politiche senza senso e alterni esiti mai risolutivi, che mai hanno saputo anteporre disegni economici d’interesse nazionale alla miserabile scommessa sull’ennesimo scandalo giudiziario. Industrialmente, nei settori dei media, editoriali e Tlc, siamo nani deformi, altro che puttane o Ciociare.
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