
Il narratore di favole
Non serve a niente dare consigli a Romano Prodi. Non lo diciamo noi, che siamo umili osservatori. Lo dicono i suoi alleati politici. Fa a meno dei loro consigli da lungo tempo, convinto com’è che la pratica del potere lo abbia ormai più che svezzato, rendendolo immune da ogni soggezione ad altrui pareri. Del resto, per Prodi si tratta di giocare al meglio le carte della sopravvivenza. Un partito proprio, non ce l’ha. La legislatura vive sin dall’inizio sul copione di uno scontro all’arma bianca contro il diavolo-nemico, Berlusconi. Di tale escatologia salvifica manicheista Romano è il grande sacerdote officiante, l’unico la cui vocazione politica da anni si incardini ferreamente nel solo orizzonte senza alternative di una guerra infinita e senza quartiere, senza prigionieri né armistizi. Né paci, alla fine. Come dice il libro dei Proverbi (9, 7-9): «Chi corregge il beffardo se ne attira il di- sprezzo, chi rimprovera l’empio se ne attira l’insulto. Non rimproverare il beffardo per non farti odiare; rimprovera il saggio ed egli ti amerà. Da’ consigli al saggio e diventerà ancora più saggio, istruisci il giusto ed egli aumenterà la sua dottrina».
Un’ideologia bellica della politica assume teoreticamente che l’interesse preminente da perseguire sia la sconfitta del nemico, non l’interesse del paese. Ovvio che l’interesse del paese in politica sia SEMPRE una clausola convenzionale, poiché esso è filtrato dall’idea che ogni parte e leader-
ship politica nutre di come il paese “dovrebbe” essere e diventare. Ma se questa convenzione accomuna in ogni caso sistemi democratici rappresentativi dei tipi più diversi, nei paesi avanzati è rarissimo che al confronto tra diverse idee socio-politico-economiche di un paese si sostituisca in maniera tanto sistematica e prolungata una presunta ieraticità del conflitto permanente. Quando capita, dice l’esame comparato della storia degli ordinamenti politici, di solito si pongono le basi o si vivono gli ultimi tempi del collasso di un sistema politico, per passare poi ad altro equilibrio politico-istituzionale. Capitò così per la Terza e soprattutto la Quarta Repubblica francese. Capitò con maggior acutezza nella Repubblica di Weimar in Germania. Come, nei secoli precedenti, avvenne alla Repubblica degli Ironsides di Cromwell, in Inghilterra. Oppure sotto il Terrore, in Francia.
Da noi, dopo quattordici anni, è difficile ancora dire se sia maturata la svolta per una riforma elettorale, e soprattutto della forma di governo e di Stato, capace di farci uscire dalle penose secche in cui ci ha portato la confusione tra palazzo Chigi e un tempio di Giano dalle porte perennemente chiuse per la guerra civile.
In ogni caso una cosa è sicura, per chi fa il mestiere dell’osservatore e non del partigiano. Di ogni ideologia bellica a oltranza, le prime vittime sono la coerenza e la verità. Se il bene supremo si identifica con il maggior guaio del nemico, ciò che ieri poteva essere bandito può diventare invece ambito, quel che ieri si negava si può affermare, obiettivi mai perseguiti possono improvvisamente essere salvificamente indicati come il massimo conseguibile. Di qui, una serie di circostanze fattuali che è persino irritante dover mettere in fila, dietro lo scudo di Ares che per Prodi è l’egida del suo governo.
Primo: la crescita. Prodi ha concluso l’anno affermando che l’Italia è un paziente finalmente dimesso e pronto a farsi valere. Altro che sorpasso da parte della Spagna. Tutti gli osservatori economici più seri testimoniano che la frenata americana sta diventando sempre più preoccupante, e che tecnicamente se gli Usa non sono già in recessione poco ci manca. Della stasi americana – una delle due locomotive della crescita mondiale, insieme a quella asiatica indo-cinese – l’Europa non riuscirà a evitare colpi. L’Italia, che cresce meno dell’Europa e di tutti, vede tutti gli osservatori oggi ridurre la crescita attesa nel 2008 a pochi decimali di punto, come tra 2001 e 2004. Di tutto ciò, Prodi non tiene conto. Come se si trattasse di dare soddisfazione all’opposizione, invece di essere realisti e prepararsi al peggio con politiche economiche più adeguate alla minor crescita attesa.
Secondo: la spesa pubblica. Durante la scorsa legislatura il mantra ripetuto fino alla noia da Prodi e dal centrosinistra voleva come uno dei maggiori errori di Berlusconi aver alzato di quasi due punti sul Pil la spesa pubblica corrente. Denuncia sacrosanta. Peccato che da quando il governo Prodi è in carica la spesa corrente sia salita di un altro punto, il che – proiettato su scala di intera legislatura – farebbe impallidire l’errore tanto gravemente contestato alla Casa delle Libertà.
Terzo: le tasse. Per cinque anni, Prodi e il centrosinistra hanno messo sotto schiaffo la politica fiscale del centrodestra. Che, però, aveva affrontato lo stallo della crescita dell’economia reale saggiamente, non alzando il prelievo fiscale ma anzi diminuendolo, sia pur di troppo poco. E, non appena la crescita era riapparsa e le entrate dal 2005 avevano ripreso a galoppare, chiudendo virtuosamente la legislatura con l’ultima finanziaria di Tremonti, che ha lasciato il deficit di competenza del 2006 al 2,3 per cento del Pil, mentre il centrosinistra paventava lo sfondamento della soglia del 5. Da allora, la pressione fiscale è salita prima al record toccato sempre dal centrosinistra nel 1997, avvicinandosi nel 2007 al 43 per cento del Pil. Nel 2008 il record verrà superato abbondantemente, portandoci a due punti di Pil di maggior prelievo rispetto alla legislatura precedente. È con questo sistema che si finanzia spesa pubblica aggiuntiva e si migliora l’avanzo primario tenendo però il deficit di competenza sul punto di tornare a superare il 3 per cento nel 2008, se per caso la frenata dell’economia reale gelasse anche il ritmo delle maggiori entrate registrate dal 2005 a fine 2006 per il miglioramento del Pil, e dall’anno scorso per via degli aggravi disposti da Prodi-Visco. Si può non credere alla via proposta da chi, come il sottoscritto, è convinto che le aliquote andrebbero energicamente abbattute per tutti, per crescere di più; far emergere molto più gettito che con la strategia feroce del Grande Fratello; ricavarne una maggior percentuale dai decìli superiori di reddito, a differenza di quanto avvenga ora con un sistema a chiacchiere iperprogressivo; e infine ponendo le basi di una riscrittura dalle fondamenta tra potestà impositive e di spesa del Centro, rispetto alle Autonomie. Ma una cosa è sicura: in ogni manuale di politica economica, sia keynesiano o antikeynesiano, sta scritto che gli aggravi fiscali in periodo di bassa congiuntura fanno male sia all’economia reale, sia alle casse dello Stato. Ma da Prodi solo silenzio, il realismo nel riconoscerlo sarebbe scambiato per un punto a favore dell’opposizione.
Quarto: la riforma elettorale. Prodi è partito come bipolarista convinto. Ha passato una lunga fase in cui le sue mosse erano ostili all’eccesso di continuità dei partiti, rispetto alla necessità ulivista di far nascere una grande aggregazione. Ora che il Pd è nato e Veltroni ne è il leader, una riforma bipolarista e tendenzialmente bipartitica agli occhi del sacerdote del tempio di Giano ha perso ogni attrattiva, perché implicherebbe l’accordo col nemico e tempi rapidi di crisi del governo. Per cui, oplà, si diventa iperproporzionalisti e difensori delle piccole formazioni, soprattutto delle più estremiste.
Si potrebbe continuare a lungo. Ma non serve a niente. Pochi grandi generali ricordano che si combatte sempre prima con la testa che con le armi, e mai contro la realtà. Molti piccoli uomini di ventura pensano invece che la logica delle armi sia l’unica che conta, anche quando fa tacere la ragione.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!