
Emergenza emigrazione. «Per ogni straniero che arriva, tre italiani se ne vanno»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Emergenza immigrati. Il problema delle migliaia di stranieri che in questi ultimi mesi hanno varcato i confini nazionali è ormai ben evidente. Ma a ben vedere c’è un’altra emergenza, non meno seria, sfuggita alle pagine di cronaca: quella degli emigrati, i paisà che lasciano la patria cercando fortuna all’estero.
«Per ogni straniero approdato nel 2014 ci sono 3 nostri connazionali che, nello stesso periodo, hanno fatto fagotto in cerca di un futuro migliore altrove». È questa la fotografia scattata dall’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes sugli italiani nel mondo. L’Italia del 2015 come quella di inizio Novecento? «I numeri non sono così imponenti come quelli che si registrarono durante la grande migrazione, ma le cifre sono importanti, in forte crescita rispetto agli ultimi anni. E nel prossimo futuro sono abbastanza certa che la situazione non si capovolgerà, anzi. Mi aspetto ad esempio che il numero delle donne italiane espatriate raggiungerà quello degli uomini», spiega a Tempi Delfina Licata, responsabile del Rapporto italiani nel mondo. L’analisi del decennio mostra una escalation non indifferente: in 10 anni si è passati da 3.106.251 iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (dato del 2006) ai 4.636.647 registrati al primo gennaio 2015. Una crescita del 3,3 per cento rispetto al 2014, ma del 49,3 per cento se confrontata al dato del 2005.
«Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar», dice il canto popolare. Ma se alla fine del 1800 erano principalmente gli agricoltori a fuggire in America del Sud in cerca di lavoro, i dati raccolti dicono che l’identikit di chi oltrepassa il confine oggi è davvero variegato: sono in prevalenza uomini (56 per cento), celibi (59,1 per cento), tra i 18 e i 34 anni (35,8 per cento). Ma ci sono anche i minori (15,2 per cento) e gli over 65 anni (19,9 per cento). «La prolungata crisi economica e occupazionale che stiamo vivendo spinge le persone a cercare nuove situazioni. Si parte perché all’estero ci sono maggiori prospettive di guadagno e di carriera, di flessibilità dell’orario di lavoro e di prestigio».
Insieme alla bassa natalità registrata in questi anni, l’Italia sta seriamente diventando un paese per vecchi. Ma anche la comunità degli anziani che espatriano è in aumento: «I pensionati che in Italia faticano ad arrivare alla fine del mese, in alcuni paesi esteri riescono a vivere dignitosamente. Oppure, rimasti soli in patria, preferiscono ricongiungersi a parenti emigrati parecchi anni prima».
Ecco chi sono i nostri connazionali all’estero. Una radiografia che ci permette di escludere che il fenomeno sia legato solamente al solito luogo comune dei cervelli in fuga, perché, per fare un esempio, «oltre agli altamente qualificati come gli ingegneri aerospaziali ci sono semplici operai di fabbrica. Tra gli over 40 rimasti disoccupati troppo tardi per avere possibilità di reinserimento lavorativo in Italia, almeno la metà di quelli che partono trova un impiego in Spagna, nelle fabbriche tedesche o nelle attività artigianali in Gran Bretagna», spiega Licata. Non mancano certamente diplomati e neo laureati che dopo anni di studio si trovano in mano proposte di stage o lavori a tempo determinato a salari bassissimi e quindi provano a costruirsi un futuro fuori confine: oggi, considerato quanto investe lo Stato per l’istruzione, «solo il 20 per cento degli studenti spende il proprio titolo di studio in patria, il 60 per cento lo investe all’estero, mentre il restante 20 per cento è inattivo, si guarda intorno scoraggiato».
Le nuove little Italy
Abbiamo detto chi parte ma non dove è diretto, quali sono le little Italy del nuovo millennio. Ai giovani piacciono molto Regno Unito, Francia, Germania e Svizzera. In termini assoluti, invece, tra i principali punti di approdo ci sono paesi europei e Stati Uniti: «Oltre a mete tradizionalmente appetibili come la Germania (14 mila trasferiti), la Svizzera (11.092) e la Francia (9.020), nelle prime 11 posizioni della graduatoria dei paesi per numero di iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero ci sono tre continenti: Europa, America (del Nord e latina) e Oceania», troviamo scritto nel Rapporto.
Ma non mancano le sorprese, perché tra i paesi che presentano la crescita più elevata tra il 2014 e il 2015 c’è la Colombia (+27,1 per cento), la Germania (+21,6 per cento), il Lussemburgo (+19,8 per cento) e gli Emirati Arabi (+19,3 per cento). Altra curiosità: il Rapporto segnala che, in questi mesi, ingegneri e profili altamente qualificati si sono diretti soprattutto in Cina ed Emirati Arabi, complici le capacità lavorative e linguistiche specificatamente richieste in questi territori emergenti. «Gli italiani vanno dove hanno conoscenti, oppure dove le proprie competenze vengono valorizzate, sia a livello economico sia come possibilità di crescita professionale».
Ma oltre all’ampiezza del fenomeno in sé, i numeri messi insieme dalla Fondazione Migrantes raccontano anche un’altra stranezza, il significativo coinvolgimento del Nord Italia: «La recente mobilità italiana è soprattutto settentrionale. In particolare la Lombardia (+24 mila) e il Veneto (+15 mila) sono i territori regionali che presentano le variazioni, in valore assoluto, più alte, seguite da Sicilia (quasi +15 mila), Lazio (quasi +14 mila) e Piemonte (quasi +13 mila). Le province di partenza sono invece 110: Milano, con 6.386 persone, guida la classifica e ha superato, rispetto allo scorso anno, Roma (5.974). Gli aumenti più consistenti si sono registrati a Udine (86,1 per cento) e Varese (46,2 per cento)».
Una volta partiti è difficile prendere la strada del ritorno: «Oggi è improbabile», conclude Licata. «Questo non vuol dire che non ci sia il desiderio di tornare, semplicemente non c’è possibilità di scelta: l’Italia non è in grado di offrire le opportunità che si trovano all’estero».
Da Chioggia ad Harvard
Giovanni Sala, milanese, è uno dei nostri futuri laureati che si appresta a prendere un aereo per Los Angeles. Negli Stati Uniti c’è già stato: un anno durante il liceo classico e tra le sue esperienze c’è anche uno stage in Germania durante gli anni della Bocconi. In California Giovanni aiuterà le aziende italiane a esportare il proprio prodotto. «La mia formazione e le mie conoscenze linguistiche mi permettono di partire senza grandi preoccupazioni. Oggi, poi, è più facile tornare a casa e grazie alle nuove tecnologie non si stacca del tutto la spina da famiglia e amici». A spingerlo negli States la voglia di continuare a crescere professionalmente con «il desiderio, però, di tornare prima o poi e portare le mie conoscenze in Italia». Non sono pochi i compagni di studio che stanno per abbandonare il Belpaese. «All’estero ci sono modi di lavorare diversi, nuove culture, credo che oggi sia molto importante. E poi le retribuzioni sono più alte. Per lo stage in Germania lo stipendio era migliore di quello che avrei percepito se fossi rimasto a Milano».
Chi negli Stati Uniti c’è già da qualche tempo sono Francesco Nordio e Letizia Trevisi, entrambi laureati in biostatistica all’università Bicocca di Milano. Francesco, di Chioggia, dopo la laurea ha cominciato il dottorato terminandolo all’università di Harvard. Dove è rimasto anche l’anno successivo. «Ancora prima che terminasse il contratto mi hanno assunto all’ospedale di Boston che è collegato all’università, con un buono stipendio e soprattutto la possibilità di continuare a imparare e ampliare le mie conoscenze professionali. Qui la ricerca è davvero a livelli altissimi». Non che mancassero delle offerte dall’Italia; chi è che si può far sfuggire una mente del genere? «L’offerta per tornare a casa c’era. Un assegno di ricerca post dottorato. E quindi sono rimasto a Boston». E a un trentaduenne nominato senior biostatistician cosa può offrire l’Italia? «Oggi niente. Credo che avrei delle possibilità nelle aziende farmaceutiche, ma partirei comunque con una retribuzione molto inferiore. Per tornare c’è tempo». «Agli americani piace parlare tantissimo, ogni giorno c’è un meeting di lavoro», racconta Letizia. Il percorso è quasi identico: prima di lasciare l’Italia l’unica offerta dopo il dottorato era un assegno di ricerca, che vale meno della metà di quello che le hanno offerto a Boston. «Senza prendere in considerazione lo stipendio, un lavoro come questo in Italia me lo sogno, non ci sono molte possibilità di continuare a studiare. E poi qui c’è una cultura diversa, noi giovani siamo valorizzati, chi merita ha molte responsabilità, forse addirittura troppe. Ho imparato molto di più in un anno e mezzo a Boston rispetto a quanto appreso durante l’università e il dottorato. Di questo sono molto contenta».
Francesco Cucco lavora per l’italiana Manens-Tifs, una società di consulenza specializzata in ingegneria e project management per il settore edile. Da un anno e mezzo, però, si trova in Arabia Saudita. Cosa l’ha spinto ad accettare il trasferimento? Anche qui c’è di mezzo uno stipendio molto più alto, ma anche la possibilità di fare carriera. «Dopo dieci anni di progettazione volevo diventare un project manager. In Italia le opportunità sono limitate, inoltre avrei dovuto seguire un master troppo costoso e di lunga durata. Ma come fa una persona sposata, con figli, a lasciare il lavoro? E quindi eccomi qui». In Arabia è consulente del ministero degli Interni saudita, per cui segue i lavori per la progettazione e la costruzione di due Medical Cities, una a Riyadh e l’altra a Jeddah. «È un progetto governativo che occupa due aree grandi, complessivamente, 5 volte quella di Expo Milano. In Italia non c’è nemmeno uno spazio così», scherza Francesco. «Ogni area è grande 2,5 milioni di metri quadrati, i due ospedali, di 500 mila metri quadrati ciascuno, sono tra i più grandi al mondo; le città saranno divise in quartieri con ville, appartamenti per single, palazzine per famiglie e aree sportive. In ciascun cantiere, quando saranno a regime, lavoreranno più di 16 mila operai». L’Italia può offrire esperienze del genere? «Impossibile: troppa burocrazia, tempi di attesa lunghissimi, scarse risorse economiche. Qui non ci sono problemi di soldi, manodopera e spazio». Nel main office lavorano circa 200 persone, tra cui italiani, americani, inglesi, libanesi ed egiziani. In cantiere ci sono filippini, pachistani e indiani. «Il nostro lavoro e il nostro know how sono molto apprezzati, anzi, dirò di più: per poter lavorare nelle posizioni chiave, da queste parti chiedono espressamente profili di persone con studi ed esperienze professionali in Occidente» (Western educated). Certo, la vita non è semplice. La famiglia è in Italia, le condizioni sociali sono difficili, le libertà di espressione e religione limitate. «Tornerei a casa domani, ma oggi a livello economico e professionale significherebbe puntare al ribasso».
Un management molto più giovane
Simone Manocci è export manager di un’azienda italiana che si occupa di edilizia, ma spesso è in viaggio tra Cina e Marocco. «La prima cosa di cui mi sono reso conto è che a parità di funzioni, più ci si allontana dall’Italia e più il management è giovane. Io ho 47 anni e spesso lavoro con persone di 30 anni. Vale la pena andare all’estero anche solo per questo: fare carriera in breve tempo. Basta guardare i profili Linkedin dei manager, in Italia non ne trovi uno con meno di 40, 45 anni. All’estero se sei bravo puoi diventarlo a trent’anni». E poi c’è la situazione economica a spingere fuori confine: «Da noi è tutto fermo, mentre ci sono zone del mondo in forte espansione».
Come il Marocco, che, fortuna sua, non è stato completamente bloccato dalle Primavere arabe. «Il governo sta investendo moltissimo nell’edilizia, ma le capacità e le conoscenze non sono certo quelle occidentali. Così eccoci qua: oggi nei paesi in forte sviluppo è l’offerta che genera domanda. Un’offerta specializzata e innovativa che viene studiata attentamente dagli acquirenti. E le risposte sono rapide perché il business c’è, non occorre aspettare mesi per risposte e autorizzazioni. In una situazione come questa è difficile decidere di tornare o restare a lavorare in Italia. Chi lo fa è perché non guadagna abbastanza e a parità di salario la vita è più confortevole in Italia».
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