Premi ai dirigenti che combattono l’omofobia. Succede a Torino

Di Caterina Giojelli
19 Maggio 2017
È banale chiedersi se una città non debba erogare servizi ai cittadini in quanto cittadini indipendentemente dall’orientamento sessuale?
Al centro la Sindaca di Torino Chiara Appendino partecipa alla parata del Torino Pride 2016, Torino, 9 Luglio 2016 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO
Al centro la Sindaca di Torino Chiara Appendino partecipa alla parata del Torino Pride 2016, Torino, 9 Luglio 2016 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Si legge “Stipendi più alti a chi è gay friendly”, ma, ovviamente, si scrive “Premi ai dirigenti che combattono l’omofobia”. Secondo quanto riportato da Repubblica a Torino gli “obiettivi Lgbt” concorrono alla definizione del premio di risultato nel piano esecutivo di gestione della giunta, e a trarne beneficio saranno direttori e dirigenti impegnati nella lotta alla discriminazione e il sostegno a omosessuali, lesbiche e transessuali.

Lo ha stabilito la giunta di una città che non sarà inurbano ricordare, nel suo bilancio di previsione ha appena annunciato sforbiciate al welfare familiare, all’istruzione e al mondo della cultura (via le agevolazioni sulla Tari per più di 50 mila famiglie, tagli pari a 5,8 milioni a musei e teatri, tagli del 25 per cento del contributo alle scuole materne cattoliche della Fism), la città in cui i sindacati sfilano sotto i balconi del municipio, i dipendenti comunali salgono sulle barricate annunciando un mese di sciopero contro le “mancate risposte” del sindaco M5S Chiara Appendino, e dagli ambientalisti ai comitati civici è tutto un levarsi di proteste contro la prima cittadina “più amata d’Italia” che dopo aver goduto del loro appoggio in campagna elettorale pare ora averli abbandonati come un Crono abituato a far banchetti dei suoi figli per regnare sotto un cielo costellato da diritti Lgbt.

L’idea non è nuova: fin dal febbraio 2001 la città, accogliendo la proposta delle Associazioni del coordinamento gay lesbiche transessuali di Torino (ora Coordinamento Torino Pride), ha istituito con una delibera il Servizio Lgbt per il superamento delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Iniziative che hanno trovato cittadinanza in molte delibere, come quella del 2015 degli allora assessori Ilda Curti (Urbanistica e Pari Opportunità) e Gianguido Passoni (Bilancio) grazie alla quale i transessuali che lavoravano al Comune diventavano i primi in Italia a potersi presentare al lavoro con un tesserino identificativo “consono al genere d’elezione” e non quello anagrafico e riportato sulla carta di identità prima che un’operazione ne concludesse il cambio di sesso. «È un segno di civiltà e di rispetto nei confronti dei lavoratori, che vanno giudicati per come svolgono il servizio, non per la loro identità sessuale», proclamò allora Curti.

Un concetto evidentemente duro a morire nello stesso Comune se oggi l’amministrazione per «evitare le discriminazioni» quando realizza o partecipa a progetti di inclusione lavorativa riserva una quota di posti a persone discriminate per l’orientamento sessuale. Se impone due ore di corso sulle tematiche Lgbt a tutti i neoassunti. Se tra i nuovi obiettivi annovera «la formazione degli operatori dei servizi sociali di strada e di chi sta nei dormitori» perché «secondo studi anglosassoni per le persone omosessuali è più facile scivolare verso l’indigenza. Così come è facile che gay o lesbiche siano più facilmente discriminati sul luogo di lavoro, entrando così fra le fasce deboli» (scrive Repubblica). Se, insomma, a questioni legate all’identità sessuale il Palazzo tiene eccome.

Nel 2015 la richiesta del tesserino consono al genere d’elezione era stata presentata alla Trans Freedom March di novembre e al convegno sulle prospettive di riforma della legge n. 164/82 sul cambiamento di sesso. Oggi Torino è la città capofila di Ready, la Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere (ricordate il questionario sull’omosessualità distribuito nei licei di Piacenza, sponsorizzato dalla giunta di centrosinistra, che seguiva le direttive di Ready? «Nella tua scuola quante volte senti parole per indicare gli omosessuali come “finocchio, frocio, lesbicona, etc”, dette in tono offensivo? Da chi le hai sentite pronunciare?» era una delle domande).

L’assessore alle Pari Opportunità, Marco Giusta, ex presidente Arcigay della città, spiega che «i progetti Lgbt, quindi gli obiettivi, non devono essere appannaggio di un solo settore, ma trasversali a tutto il Comune e a tutti i comparti, impegnando ogni dirigente nel raggiungimento del traguardo». Per la Giornata internazionale contro l’omofobia che si è celebrata il 17 maggio il Comune ha affisso in città 1.200 manifesti realizzati dal coordinamento Torino Pride e ha patrocinato un calendario di iniziative fittissimo manco fosse il programma del partito laburista alle elezioni britanniche del 1979. Dalle mostre “Rights in love”, sul diritto ad amare quale principio di libertà di espressione e di uguaglianza a “Families” sui diversi modi di fare famiglia e sulla necessità del loro riconoscimento giuridico, agli incontri dedicati al coming out nell’adolescenza e alle esperienze di genitori e figli contro l’omofobia e la transfobia. Mentre sul Palazzo civico sventolava la bandiera del Pride e nelle stazioni della metropolitana veniva proiettato il video spot creato da Ilga Portugal con lo slogan “Per il diritto all’indifferenza”.

Ricapitolando: prima il Comune combatte le discriminazioni dicendo che nessuno può essere giudicato in base alla propria identità sessuale ma in base al proprio lavoro, poi realizza inclusione lavorativa riservando una quota di posti a chi si sente discriminato in base alla propria identità sessuale, ora premia il lavoro di chi combatte le discriminazioni e sostiene gli obiettivi delle persone discriminate per la propria identità sessuale.

C’è da chiedersi in che modo, visto che proprio in osservanza delle norme (italiane, non solo quelle torinesi) nessuno dovrebbe poter esercitare funzioni che interferiscano o adottino criteri diversi in base all’orientamento sessuale dell’utente. Altrimenti è, appunto, discriminazione, omo o eterodiretta. È banale chiedersi se una città non debba erogare servizi ai cittadini in quanto cittadini indipendentemente dall’orientamento sessuale? Come si stabilisce il grado di gayfriendlitudine o omofobitudine di un dipendente comunale? Come si traduce nella pratica di un dirigente questa «messa a punto di un piano di gestione degli obiettivi Lgbt» che sottolinea Roberto Emprin del settore Pari opportunità e politiche di genere «diventa una questione di professionalità»? Ipotesi a caso, alloggi ad hoc da parte del dipartimento dell’Urbanistica? Sostegno alle iniziative della rete Ready? Efficientamento della macchina amministrativa sulle istanze mosse dagli Lgbt? Perché il sospetto, in questo annuncio sconclusionato riportato da Repubblica, è che disservizi, ritardi, tagli, promesse non mantenute, nel caso di cittadini eterosessuali scontenti continueranno ad essere tradotte come ragioni di “burocrazia inefficiente”, “problemi di bilancio”, “mancanza di risorse e personale”. Nel caso dei più barricaderi Lgbt, invece, di “discriminazione omofoba” e, per il funzionario che la combatte, un premio in busta paga. C’è da farne, in entrambi i casi, un mestiere.

Foto Ansa

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