Quei ragazzi cattivi cattivi a cavalcioni del gargoyle

Di Caterina Giojelli
15 Settembre 2018
Erano i figli di chi li ha creduti immuni dal male, ha minimizzato il loro male, li ha ridotti al loro male. Ora hanno trovato un padre. Viaggio a Borgo Amigò

 

Tratto dal numero di Tempi di settembre

La storia è questa, nuda e cruda: c’è un sacerdote, perché c’è sempre un sacerdote nelle storie di frontiera, c’è una croce appesa dove una volta si levavano le fiamme di un grosso forno, una lavanderia che sorge nel porcile, sedici ragazzi cattivi cattivi che dormono dove un tempo c’erano le stalle e la paglia. Insomma c’è già tutto, un padre, Cristo, il peccato sporco da lavare, le bestie. E intorno uno strano Eden dove i bambini guizzano in piscina come quei pesciolini del ruscello che poco più in là porta a un cancelletto: è rosso, di ferro, sorge lì in mezzo a un prato, non fende alcun muro, non ha chiavistelli, è sempre aperto. Siamo a Roma, quartiere Casalotti, via Boccea inoltrata, e ci sono anche le rane che gracidano sotto le ninfee: sembra il primo giorno di una Creazione un bel po’ squinternata, siamo in un posto chiamato Borgo Amigò.

I ragazzi cattivi cattivi siedono a tavola come a cavalcioni di un gargoyle, con la temerarietà poetica dell’età ma anche del brigante vissuto, gli occhi neri o di ghiaccio tutti tesi a scrutare dietro il piatto fumante. Sono i figli del dpr 448, entrato in vigore trenta tondi anni fa, introducendo nuove disposizioni sul processo penale a carico di imputati minori: da allora la permanenza in casa, l’affido ai servizi sociali, il collocamento in comunità e il beneficio della “messa alla prova” (con questa il processo viene sospeso e il magistrato concede un lasso di tempo perché il ragazzo possa svolgere un programma specifico in una comunità) sono diventate misure alternative al carcere e a Borgo Amigò oggi trovi un po’ di tutto, rumeni, albanesi adolescenti immigrati, africani arrivati con i barconi, ragazzi che provengono dal carcere minorile di Casal del Marmo. Ecco: prima del dpr tutti i ragazzi colti in flagranza di reato venivano spediti qui e qui viene spedito padre Gaetano Greco nel 1981.
«Io non sapevo che sarei finito in carcere tra i ragazzi, ho sempre pensato anzi che la mia vocazione fosse quella di aiutarli a non finire dietro le sbarre. Sapevo, questo sì, che volevo fare il sacerdote. Sono nato a San Giovani Rotondo, in quegli anni o andavi a lavorare in Germania o sognavi di farti frate. Io dicevo a tavola, ai miei fratelli, “da grande vado in seminario e faccio il prete” – ride allegro, padre Gaetano, col curioso affetto di chi ha negli occhi ancora mamma Antonietta che si avvicenda al forno e papà Matteo che gli risponde: «Figlio mio, la vita è tua ma mi piacerebbe che una volta presa una strada di fede le restassi fedele» –. L’ho detto anche a padre Pio, ero ancora un ragazzino e quanta voglia avevo di conoscerlo. Gli ho detto proprio così: “Padre, domani parto per il seminario”. E lui, “Vai tranquillo, vai tranquillo”».

Forse era anche un po’ colpa di quei Terziari Cappuccini dell’Addolorata, congregazione religiosa fondata in Spagna nel 1889 dal valenciano padre Luigi Amigò, che nel ’57 erano arrivati a San Giovanni Rotondo per gestire la parrocchia di Sant’Onofrio, «e sa una cosa? Erano simpaticissimi. Una simpatia contagiosa. E poi avevano come missione quella dell’educazione dei giovani con problemi legati al loro comportamento o al loro inserimento sociale. Finito il seminario in Salento entro quindi in questa bella famiglia. Nel ’75 sono a Cagliari, in una casa di rieducazione, vi sto sei anni, poi sono a Lucca a rubare il lavoro a un po’ di professori in una scuola, quando mi chiama un confratello spagnolo che faceva il cappellano a Casal di Marmo: c’è bisogno di una sostituzione mentre torna in Spagna per le vacanze estive. E arrivo a Roma, un incubo. Sbarre, porte che si chiudevano, chiavi, tutto mi soffocava».

«Sto morendo, mi dia del riso»
Terminata l’estate il confratello non si è ancora rivisto a Roma, e il padre generale chiama Gaetano, «ma tu che pensi di fare, che vuoi fare nella vita?», «e che penso? Penso di aspettare che qualcuno decida per me», «non pensare: il tuo posto è Roma». Il primo giorno da cappellano padre Gaetano sta salendo le scale quando viene quasi travolto da un ragazzino in corsa: «Lo saluto, “buonasera”. E quello, “chi l’autorizza a salutarmi?”. Andiamo bene, ho pensato. Andammo così bene che quel ragazzino divenne il punto di ogni incontro e scontro di discussione filosofica in quegli infuocati anni Ottanta».
Erani gli anni dei rossi, dei neri, dell’eroina. Una sera il padre sta uscendo dal carcere quando si sente chiamare da dietro le sbarre: è il ragazzino, «padre, padre, mi deve salvare la vita, sto morendo». «Aveva dei problemi intestinali, ed era convintissimo che qualcuno lo stesse avvelenando, “mi aiuti, trovi del riso subito, la signora è disposta a cucinarmelo in bianco”. Quella notte trovai del riso, il giorno dopo lui mi corse incontro: “Grazie padre, mi ha salvato la vita”. E quel piatto di riso in bianco capovolse tutto».
Non c’è solo riso in bianco. Ci sono stati i figli dei mafiosi, i figli degli abusi, le cinture per impiccarsi, le giornate mute o lavate di lacrime. Anche il ragazzino finì male. Ma padre Gaetano continuò a rispondere alla richiesta di riso, francobolli per scrivere a casa, carta, penne così come portava l’eucarestia, «vado in carcere, porto Cristo in carcere con me».

«Tu sei un assassino»
I ragazzi cattivi cattivi ora parlano di lavoro: «Ieri mi hanno fatto fare bruschette tutta la giornata», racconta fiero un ragazzo con gli occhiali, «bruschette», ripete ad alta voce a quello nero nero vicino a lui che sorride senza capire una cicca di italiano. Padre Gaetano ha appena benedetto il cibo in tavola, «di’ al cuoco che conosci uno bravo, portalo con te a far bottega in cucina», il ragazzo con gli occhiali storce il naso, mentre i più grandi si danno alla politica, parlano di monarchia costituzionale in Marocco e di repubblica democratica in Tunisia (e di attentati) e l’accento borgataro del rom piccolo sovrasta quello ruvido dell’est del rumeno grande.
Solo quando parla padre Gaetano si fa silenzio, silenzio attento, obbediente: i ragazzi cattivi cattivi ascoltano le parole del padre, e a buon diritto. Se è vero che Cristo è l’uomo che venne per primo nella storia originale è anche vero che il peccato venne prima di Cristo, tutto sta quindi in una questione cronologica e loro devono averlo capito, che dopo il male arriva sempre qualcuno che ha parole di bene. «Il punto è che per salvarti devi affrontare il male commesso. Un giorno viene qui un padre a trovare un ragazzo che aveva ucciso un’anziana. Un bullo arrogante, “ho parlato con l’avvocato, sembra che per uscire…”: il padre quasi se lo mangiava, “uscire? Tu hai ucciso una persona, tu sei un assassino”. Ci vuole coraggio per fare di un fatto di sangue la pietra su cui poter costruire qualcosa: né più in là, né più in qua, proprio lì, sul fatto di sangue. Quante volte ho sentito dire in carcere “la mia vita è finita” a ragazzini di 15 anni. Finita? No, la vita non è finita. Ma perché non sia finita la pena non deve diventare una prigione. Bisogna fare tanta strada, e qualcuno deve indicartela. Perché il carcere a quell’età produce danni che non sono più rimediabili, il deterrente rischia di diventare assuefazione. Non ci vuole una prigione, ci vuole una strada, un luogo».

Insomma, un borgo. Emulatori, bulli, sprezzanti, onnipotenti, figli di chi li ha creduti immuni dal male, figli di chi ha minimizzato il loro male, figli di chi li ha ridotti al loro male: ecco chi sono i ragazzini prima, durante e dopo il carcere. Ma anche il più “figlio di” a Borgo Amigò rassetta il letto, pulisce il pavimento, riordina la stanza, perché dal 1995 in quel Borgo, quella Casa (dedicata al cardinale Agostino Casaroli che ha condiviso il progetto e ha aiutato padre Gaetano a trovare i fondi per realizzare la prima parte dell’opera) ha trovato un padre. Che gli ha insegnato che la libertà è una porta aperta come quel cancelletto rosso (sotto al quale tutti continuano misteriosamente a passare, senza aggirarlo) – e non la vuoi perdere più, pensa il bullo, in nessuna piega di lenzuolo, granello di polvere sotto il letto. Un tutt’uno con l’aria respirata che trasforma l’onnipotenza in rantolo asmatico.

«Tu sei stato un padre per me»
Una volta qui sorgeva un antico casale, e su quelle rovine, il forno in disuso, il porcile, la stalla, è stato forgiato il borgo con la chiesetta, la piazza, la casa per i ragazzi dai 14 ai 18 anni e quella per i giovani dai 18 ai 21 anni. C’è perfino un campo da calcio, i bungalow di legno perché grazie all’8 per mille qui è nata l’Associazione sportiva dilettantistica Borgo Amigò per giocare un sacco a calcio, dove volontari e papà allenano bimbi, ragazzi e adulti del quartiere, e da giugno ad agosto arrivano i piccoli del centro estivo, figli di galeotti, di ex galeotti, di famiglie della zona. E ci sono loro, i ragazzi accolti da padre Gaetano, che hanno contribuito a tutto questo, perfino alla realizzazione della piscina dove ora i bambini sguazzano al sole insieme agli educatori. Tutti si fidano del bene che opera, che si è fatto opera.

La sera padre Gaetano aspetta come un padre che tutti siano a letto, le luci spente, il borgo silente. Quando non prendono sonno – quando come tutti i ragazzi oppongono un’instancabile volontà di veglia al residuo di sonno – , i ragazzi cattivi cattivi, quelli dei furti, rapine a mano armata, spaccio di droga, omicidi, possono sentire gracidare le rane che abitano sotto le ninfee nel torrente che porta al cancello. A volte, dopo qualche anno, tornano, attraversano la soglia aperta solo per ricordare a quel sacerdote di frontiera, «tu sei stato un padre per me», studiano, si sposano, mettono da parte i soldi, «uno ha adesso una bella azienda agricola in Albania. A quelli così non puoi mettere un lucchetto, in fondo al male resiste tutto ciò che occorre per vivere. Esiste l’essenziale. Un po’ come qui – sorride padre Gaetano –, lavoro, condivisione dei pasti, messe nella cappelletta sotto la croce. A cui portiamo anche i nostri fallimenti». Anche il più bullo dei cattivi cattivi è un ragazzo frantumato, che ha perso il padre, la madre, la famiglia, ha perso la libertà, che ha perso la bussola. Fuori programma, fuori posto più di loro cattivi, c’è solo quel Cristo in carcere servito come un pugno di riso in bianco. Travestito da un Papa che nel 2013 si presenta inatteso per il giovedì santo ai loro piedi, facendo loro la lavanda dei piedi.
Perché i ragazzi cattivi cattivi non esistono. Esistono ragazzi nudi, crudi, carne, ossa e peccato originale a cavalcioni di un gargoyle. Che aspettano che un padre mostri una strada e dica loro che no, non è affatto finita.

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