
I siriani straziati da bombe e fame vogliono le chiese aperte

È stato proprio davanti alla crescita dei contagi da Covid che «i fedeli si sono ribellati alla chiusura delle chiese e hanno insistito nel partecipare in tantissimi alla messa quotidiana». Ha usato proprio questa parola, “ribellione”, monsignor Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco, nel messaggio “Vincere la paura” inviato a Fides la scorsa settimana. Non appena in Siria si è diffusa la notizia di una probabile serrata dei luoghi di culto cristiani e la sospensione delle messe per Natale il popolo, straziato da dieci anni di guerra, ha riempito le navate arrivando anche a disobbedire alle indicazioni dei vescovi prendendo per bocca e non sulle mani l’ostia consacrata «quasi a voler sfidare la pandemia».
LA GUERRA, LA CRISI, LA PANDEMIA
La Siria è stanca ed esausta, annientata dai bombardamenti e strangolata da una «durissima guerra economica» inasprita dal Caesar Act che sanziona qualsiasi persona o azienda al mondo che intrattenga rapporti commerciali con la Siria. Damasco è una coda infinita davanti alle panetterie e i distributori di benzina, scrive il vescovo, parlando di inflazione galoppante (il prezzo dei prodotti è triplicato in 6 mesi) e risparmi di tanti siriani congelati nelle banche libanesi da più di un anno. In questo contesto, «la pandemia da Covid 19 aumenta paura e solitudine per le famiglie, già rimaste senza lavoro e senza risorse, facendo sentire i suoi effetti devastanti soprattutto nel settore medico-sanitario, dove si registra una paralizzante carenza di farmaci e di personale, con tanti medici e infermieri che hanno lasciato il Paese durante gli anni del conflitto».
IL VIRUS IN UN CUMULO DI MACERIE
«È necessario porre fine alle sofferenze catastrofiche del popolo siriano» dichiarava all’inzio della pandemia l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir O. Pedersen, snocciolando le cifre del conflitto, una crisi umanitaria di proporzioni monumentali: 400 mila morti, 5,5 milioni di persone scappate all’estero, più di 6 milioni di sfollati interni. Novemila i bambini uccisi o feriti nel conflitto, 5mila reclutati nei combattimenti. Prima di Covid, a causa dei bombardamenti, due scuole su cinque non erano agibili, oltre la metà delle strutture sanitarie non erano funzionanti mentre cresceva il numero di malati di cancro dovuto all’inquinamento di 10 anni di esplosivi e bombe di ogni genere. E poi è arrivato il virus, insinuandosi in un paese ridotto a un cumulo di macerie dove più della metà della popolazione non aveva più una casa. «A parte i negozi di alimentari, le farmacie e le panetterie, tutto è stato chiuso: scuole, università, fabbriche, officine, negozi e tutti i luoghi pubblici», raccontava a luglio Nabil Antaki, medico di Aleppo, «il popolo siriano non sa più a quale santo votarsi».
ASPETTANDO IL DIVINO BAMBINO
Nemmeno in tempo di guerra le chiese erano state chiuse, messe e liturgie avevano lasciato i luoghi di culto solo col Covid per trasformare, complici le tecnologie, ogni casa in una paziente chiesa domestica. Ma la nascita del Bambino, speranza del popolo cristiano, ha riportato molti fedeli nei luoghi d’impiccio al governo del virus per ritrovare e toccare, sentire la provvidenza, levare più forte il grido di preghiera davanti a un altare, un presepe.
La condizione del popolo siriano, scrive l’arcivescovo Nassar, chiama in causa tutte le comunità ecclesiali, «la Chiesa maronita di Damasco è coinvolta in un cammino sinodale iniziato il 31 maggio, domenica di Pentecoste, volto a farsi carico delle ferite di tutti e a raccogliere intorno al Vangelo i tanti battezzati dispersi e affaticati da anni di sofferenze. Riusciremo a portare avanti questo progetto sinodale, per celebrare il Perdono davanti al Divino Bambino?», è la domanda con cui monsignor Nassar chiude il suo messaggio.
Foto Ansa
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