Consigli non richiesti a Fazio e Serra per sostenere le tesi russe ma con ragioni adeguate

Di Rodolfo Casadei
08 Febbraio 2022
Prima di papa Francesco a "Che tempo che fa" si è parlato di crisi in Ucraina. Qualche spunto per capire cosa c'è in ballo senza essere ideologici
Vladimir Putin Russia
Vladimir Putin a Pechino per l'inaugurazione delle Olimpiadi invernale (foto Ansa)

Talvolta i progressisti sostengono la cosa giusta per le ragioni sbagliate. È il caso di domenica sera a “Che tempo che fa” su Rai3, dove l’intervista di Fabio Fazio a papa Francesco è stata preceduta da un dibattito sulla crisi russo-ucraina che ha visto gli interventi di Michele Serra e Marc Innaro da Mosca.

Il paragone con Risiko non ha senso

In buona sostanza la trasmissione ha spezzato una lancia a favore delle tesi russe, ha cioè fatto proprio l’argomento secondo cui l’espansione a oriente della Nato metterebbe in pericolo la sicurezza della Russia. Attraverso uno stravagante parallelo messo in campo da Michele Serra, frutto delle sue reminiscenze giovanili: l’Occidente si starebbe comportando come quel giocatore di Risiko che accumula carrarmatini nei territori di confine con un altro giocatore. Quest’ultimo si innervosisce e protesta, il primo lo rassicura, ma il rapporto fra i due, che all’inizio del gioco scherzavano e si trovavano simpatici, inevitabilmente si logora. E nel corso della partita finiranno per combattersi.

Il paragone che Serra ha proposto è lunare, perché nel Risiko il giocatore accumula carrarmatini in territori che prima ha occupato vincendo scontri ai dadi col detentore iniziale della casella. Nella realtà storica è successa una cosa molto diversa: non è stata la Nato a imporre le sue basi militari agli stati dell’ex Patto di Varsavia e ad alcune delle ex repubbliche sovietiche confinanti con la ridefinita Russia: sono stati questi ultimi che, non nutrendo abbastanza fiducia nelle intenzioni pacifiche della neonata Federazione Russa, hanno chiesto di entrare a far parte della Nato a garanzia della propria indipendenza. E quel che è successo nel Donbass e in Crimea ha confermato i loro timori e li ha confermati nella bontà della loro scelta. 

La distensione con la Russia e gli errori dell’Occidente

Premesso ciò, l’invito alla distensione con la Russia partito dallo studio di “Che tempo che fa” è assolutamente condivisibile. Ma bisogna arrivarci non facendo propria la retorica vittimista della controparte (che è mossa dalla logica di potenza tanto quanto l’America e la Nato), ma a partire da una riflessione sulla dottrina strategica dell’Occidente e da un’autocritica dei propri errori di percorso e della propria hubrys (tracotanza). Senza le quali due soli sono gli esiti possibili: un futuro di subalternità (oggi alla Russia, domani ad altre potenze) o la ripetizione in futuro degli stessi errori che hanno portato all’impasse attuale.

L’errore comincia con le presidenze Clinton all’indomani della fine della Guerra fredda: gli Usa immaginano di potere consolidare l’egemonia unipolare conquistata attraverso la globalizzazione. Produzione, commercio, comunicazione, scambi tecnologici non devono più avere confini: in questo modo il resto del mondo sarà assorbito nel sistema occidentale dal punto di vista sia economico-finanziario che politico-ideologico. Sarebbe stato il trionfo del soft power dell’Occidente.

Non è andata assolutamente così: la globalizzazione ha favorito l’emergere della superpotenza autocratica cinese, che si è appropriata di tecnologie e mercati nel mentre che manteneva la propria autonomia dal punto di vista politico e ideologico. Come ha scritto Alexander Del Valle, «La grande vincitrice (della globalizzazione – ndt) è la Cina, che vìola  le regole dell’Omc, saccheggia le tecnologie occidentali, strumentalizza il revanscismo del suo alleato russo e prepara la sua dominazione planetaria ai danni dell’America. La Cina e l’Asia sono portatrici di una mondializzazione de-ideologizzata e de-occidentalizzata».

Potenza militare e soft power

L’amministrazione Biden, come già prima di lei la presidenza Trump, ha preso atto del fatto che la globalizzazione non ha prodotto l’americanizzazione del mondo, ma ha creato un contesto di competizione spietata fra grandi e medie potenze (oltre alla Cina e alla Russia ci sono l’India, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita, ecc.). È convinta di poter uscire vincitrice dalla nuova Guerra fredda multipolare con una combinazione di potenza militare (Nato in Europa e Aukus-Quad in Asia) e di soft power (rivoluzioni arancioni, lavorìo della Open Society di Soros e Summit for Democracy per minare dall’interno le autocrazie). Ma non può funzionare.

In Europa come in Asia, gli americani non possono manovrare un compatto fronte anticinese e antirusso: in Asia possono contare su Giappone e Australia, alleati organici di vecchia data, ma gli altri partner regionali corteggiati – India, Filippine, Vietnam, Indonesia – non possono spingere l’ostilità alla Cina (che pure crea loro molti problemi marittimi) oltre una certa soglia, perché di tutti questi paesi la Cina è il primo partner commerciale e importante investitore; lo stesso dicasi in Europa per quanto riguarda la Russia: gli Usa possono contare sul supporto inflessibile di quasi tutti i paesi dell’Europa dell’Est nel braccio di ferro con Mosca, più la Gran Bretagna; ma non su quello di Germania, Francia, Italia e Spagna, che per motivi politici (Francia), politico-economici (Germania) ed economici (Italia e Spagna) non hanno interesse ad alzare i toni con la Russia.

E per quanto riguarda la Cina, in Europa Biden è ancora più scornato: a seguirlo al cento per cento c’è solo la Repubblica Ceca, tutti gli altri non vogliono o non possono allentare i rapporti intrattenuti con Pechino (come dimostra l’accordo sugli investimenti fra Ue e Cina, approvato alla chetichella prima che Biden entrasse in carica).

Con il woke l’occidente è più debole

Sul piano ideologico, infine, la politica del soft power americano è fallimentare: aver allargato i tradizionali valori liberaldemocratici ai contenuti dell’ideologia woke indebolisce la forza di penetrazione ideologica occidentale presso la altre civiltà. Se fino a ieri le varie autocrazie potevano centrare la loro propaganda sullo slogan che le libertà occidentali erano solo la foglia di fico che copriva l’imperialismo americano, oggi possono con valide ragioni obiettare che nessuna civiltà può sopravvivere alla combinazione di diritti individuali assolutizzati e soggettività politica identitaria (le donne, i neri, i transessuali, i gay, gli indigeni, i musulmani, ecc.) che gli Usa hanno abbracciato, promuovono con un certo successo nel resto dell’Occidente e vorrebbero esportare in tutto il mondo.

Tutti gli altri attori della competizione multipolare hanno scelto una forma di nazionalismo, che garantisce quella coesione che l’ideologia woke mette a repentaglio: nazionalismo cristiano-ortodosso la Russia, nazionalismo induista l’India, nazionalismo islamico sunnita o sciita rispettivamente la Turchia e  l’Iran, nazionalismo comunista la Cina.

La Russia tra le braccia della Cina

Premesso tutto questo, a “Che tempo che fa” hanno fatto bene a mostrare la foto di Vladimir Putin sorridente in compagnia di Xi Jinping all’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino: pretendere di erodere posizioni contemporaneamente a Russia e Cina, oggi ha come risultato quello di spingere sempre più la Russia nelle braccia della Cina; mentre l’obiettivo dovrebbe essere quello di allentare l’amplesso, al fine di ottenere la neutralità, se non addirittura l’alleanza di Mosca nell’azione di contenimento di Pechino.

Non si tratta di assumersi impegni formali con Putin, come lui chiede (richiesta logica in fase negoziale, ma ovviamente inaccettabile: si firmano accordi che limitano le proprie opzioni geopolitiche solo quando si perde una guerra). A Yalta non fu firmato alcun accordo di spartizione dell’Europa fra Usa e Urss, ma dopo Yalta tutti sapevano quali erano le regole del gioco, equivalenti a una spartizione.

L’interesse di Biden

Oggi non si tratterebbe di spartirsi l’Europa, ma di convenire su accordi non detti e non scritti che fissino la neutralità politico-militare di alcuni paesi europei. Questo non comprometterebbe in alcun modo l’indipendenza di ciascun paese per quanto attiene i suoi affari interni. Al tempo della Guerra fredda sono esistiti in Europa paesi a sistema politico liberaldemocratico che non facevano parte della Nato e paesi a sistema comunista che non facevano parte del Patto di Varsavia.

In Austria, Finlandia, Svizzera, Irlanda e Svezia la democrazia e lo stato di diritto sono fioriti anche se questi paesi non erano parte della Nato; in Jugoslavia e Albania il comunismo ha afflitto i popoli senza alcun supporto da parte dell’Unione Sovietica, anche se quei regimi hanno sfruttato il confronto Est-Ovest per mantenersi in sella, e quando è venuto meno sono anche loro crollati. Ma forse a Biden non interessa veramente la crescita democratica dell’Ucraina e degli altri paesi.

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