Cronache dell’infernale lockdown inflitto «senza un perché» alla (ex) “perla d’Oriente”. Il cuore produttivo della Cina tramutato in galera per 25 milioni di innocenti, ridotti alla fame e alla disperazione
Un poliziotto davanti alla skyline del distretto finanziario di Shanghai (foto Ansa)
Shanghai è anche un verbo. In inglese significa costringere qualcuno a imbarcarsi su una nave come marinaio dopo averlo drogato o ubriacato. E, di conseguenza, vuole anche dire rinchiudere qualcuno con la forza o con le minacce in carcere. Non siamo più nell’Ottocento e al porto di Shanghai, il più importante a livello globale, non c’è più bisogno di rapire gli uomini per obbligarli a lavorare. Nel centro finanziario della Cina, uno dei più esclusivi al mondo, a milioni i migranti dalle remote province dell’Ovest fanno la fila per accaparrarsi un posto, anche sottopagato, in un cantiere. E i giovani laureati sgomitano per essere assunti dai grandi marchi occidentali come Sony, Apple o Tesla. Eppure, a oltre 200 anni di distanza dai fatti per i quali il verbo dispregiativo è stato coniato, anche in Cina la parola Shanghai non è più sinonimo di lusso, ricchezza, potere, sviluppo. Oggi la città non è più associata ai suoi più illustri appellativi (“perla d’Oriente”) ma alla modalità, conf...