
La crisi del Medio Oriente è il fallimento di Biden (e degli Usa)

Quando un presidente degli Stati Uniti ricorre al richiamo morale significa che politicamente ha già fallito. È questa l’impressione che suscitano le parole rivolte il 9 ottobre da Joe Biden a Benjamin Netanyahu nell’ennesima telefonata con il premier israeliano. Il leader democratico, discutendo con Bibi dell’invasione del Libano in atto, gli ha chiesto nella sua lotta contro Hezbollah di «ridurre al minimo i danni ai civili, in particolare nelle aree densamente popolate di Beirut». Poche ore dopo, cinque paramedici sono stati uccisi nel sud del Libano in un raid israeliano e due militari Onu feriti.
Il fallimento di Biden e Harris
Si tratta soltanto dell’ultima dimostrazione di impotenza di Biden, che a partire dal 7 ottobre dell’anno scorso ha cercato invano di barcamenarsi tra il sostegno politico e militare a Israele dopo i massacri compiuti da Hamas e il debole tentativo di contenerne la reazione nei limiti del diritto internazionale.
Il presidente americano, nonostante gli sforzi, si ritrova con un Medio Oriente in ebollizione, Gaza ridotta in macerie e straziata da 42 mila vittime, 97 ostaggi ancora nei tunnel di Hamas, nel bel mezzo di una guerra tra Israele e Hezbollah che potrebbe fare implodere il Libano (dove già si contano duemila vittime) e alle porte di un conflitto potenzialmente devastante tra Israele e il suo arcinemico dell’Iran.
Non c’è da stupirsi che The Atlantic, in un pezzo ben documentato sulle mosse degli Stati Uniti dal 7 ottobre al 31 agosto, abbia parlato di «anatomia di un fallimento». Un fallimento di cui Joe Biden e Kamala Harris sono responsabili.
Disastro diplomatico in Libano
Partendo dalla fine della storia, il richiamo fatto da Biden a Netanyahu è apparso come l’ultimo disperato tentativo di impedire che il Libano faccia la fine di Gaza. Dopo il lancio il 23 settembre da parte di Israele di una campagna di intensi bombardamenti sul paese, il 25 settembre gli Stati Uniti insieme alla Francia e ad altri partner europei e arabi hanno promosso un cessate il fuoco «immediato» di 21 giorni per arrivare a una soluzione diplomatica del conflitto.
Netanyahu ha traccheggiato, facendo credere agli Usa di essere d’accordo, e quando tutti erano convinti che avrebbe accettato la proposta, Tel Aviv l’ha rifiutata. Poi, il 27 settembre, da suolo americano, Netanyahu ha dato il via libera all’attacco per l’uccisione di Hassan Nasrallah facendo capire di non avere alcuna intenzione di fermarsi.
Subito dopo il ministro della Difesa americano, Lloyd Austin, ha dichiarato di «credere ancora in un cessate il fuoco». Ma dopo due settimane di combattimenti, un milione di persone già sfollate in Libano (il 20% della popolazione), le truppe Onu diventate un bersaglio dei tank israeliani, ogni speranza è svanita e Biden è ridotto a implorare lo Stato ebraico di «ridurre al minimo i danni ai civili». Pur sapendo (e lo sa anche Tel Aviv) che in ogni caso non ci saranno conseguenze.

Israele ignora gli Stati Uniti
Nessuno si è stupito del fatto che Israele abbia ignorato le proposte del suo più grande alleato, gli Stati Uniti. Il governo guidato da Netanyahu si comporta così da almeno un anno e Biden non è mai sembrato in grado di reagire.
La situazione, del resto, gli era già sfuggita di mano fin dal principio della guerra a Gaza. Dopo aver dimostrato la sua solidarietà a Israele all’indomani del massacro del 7 ottobre, Biden ha più volte chiesto a Netanyahu di non invadere la Striscia ma di limitarsi a un’operazione antiterrorismo. L’ultimo appello lo ha rivolto al premier israeliano di persona, durante la sua visita a Tel Aviv del 18 ottobre. Bibi non ha ascoltato l’alleato, ma gli ha promesso: «La guerra sarà finita entro Natale».
Il 23 dicembre, quando ormai era chiaro a tutti che il conflitto non sarebbe terminato e che lo Stato ebraico non sapeva come eliminare Hamas, Netanyahu rassicurò nuovamente Biden che tutto si sarebbe concluso per fine febbraio.
La «linea rossa» di Biden
A marzo l’autorità di Biden e degli Stati Uniti erano già fortemente compromesse, ma il colpo di grazia arrivò il 10 del mese, quando Biden durante un’intervista esclusiva con la Msnbc disse: «L’invasione di Rafah è la nostra linea rossa, Israele non deve superarla». Il 9 maggio il presidente aggiunse che l’occupazione di Rafah avrebbe spinto gli americani a bloccare la vendita di armi a Tel Aviv.
Il 14 maggio l’esercito israeliano entrò a Rafah senza batter ciglio, gli Usa posticiparono qualche consegna di armamenti, per poi riprendere l’invio di materiale bellico al ritmo consueto.
«Che cosa avete fatto?»
Tra l’intervista del 10 marzo e il 14 maggio era in realtà accaduto di peggio. L’1 aprile Israele aveva distrutto una parte dell’ambasciata iraniana a Damasco per uccidere un generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Mohammad Reza Zahedi.
Quando la comunicazione arrivò a Washington, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, rendendosi ovviamente conto che colpire un’ambasciata equivale ad attaccare il territorio sovrano dell’Iran, reagì incredulo: «Che cosa avete fatto?».
Iran e Israele snobbano gli Usa
Quella sera stessa, spiega The Atlantic, gli iraniani fecero sapere agli Usa che li ritenevano responsabili e che si sarebbero vendicati. L’amministrazione rispose per le rime: non attaccate Israele, altrimenti Iran e Stati Uniti saranno trascinati nel conflitto.
La minaccia era chiara, ma servì a poco. Nella notte tra il 13 e il 14 aprile l’Iran, snobbando l’avvertimento degli Usa, lanciò 300 tra droni e missili contro Israele, tutti o quasi intercettati. Sollevato per lo scampato pericolo, Biden chiese a Netanyahu di non reagire a quell’attacco ma lo Stato ebraico ignorò la richiesta del presidente ancora una volta, bombardando il 19 aprile per rappresaglia una base militare su suolo iraniano.
Se un conflitto più ampio non è deflagrato non è certo per l’attività diplomatica o militare americana, ma solo perché l’Iran si è scoperto troppo debole per provocare ulteriormente Israele.
Le tante trattative andate in fumo
L’impotenza americana si è manifestata nell’ultimo anno anche nei numerosi tentativi di strappare un cessate il fuoco e uno scambio di prigionieri tra Hamas e Israele, affossati a più riprese a volte dai terroristi, altre volte da Tel Aviv.
Nel suo ultimo libro, War, il giornalista americano Bob Woodward racconta che Biden a primavera ha più volte definito Netanyahu un «bugiardo, fottuto bastardo e figlio di puttana». È possibile anche che gliel’abbia detto in faccia o al telefono: di sicuro, gli insulti non hanno migliorato l’ascendente del presidente sul premier israeliano.
Israele progetta l’attacco letale all’Iran
Non è finita. Il 9 ottobre il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha assicurato che Israele colpirà presto l’Iran con un «attacco letale, preciso e a sorpresa. Non capiranno cosa è successo né come».
Contemporaneamente Netanyahu ha convocato un gabinetto di sicurezza sull’Iran, un’indicazione importante dal momento che secondo la legge israeliana il primo ministro ha bisogno di un voto del gabinetto per un’azione militare significativa che potrebbe portare a una guerra totale con Teheran.
Nessuno ascolta Biden
Solo il giorno precedente Biden era tornato a chiedere al telefono a Netanyahu di cercare «soluzioni diplomatiche» per porre fine al conflitto in Libano e a Gaza.
Si tratta certamente di un altro smacco per Biden, non di una novità: la voce degli Usa e del suo presidente in Medio Oriente non viene ascoltata da oltre un anno.
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