
Mori, il generale che ha catturato Riina, si racconta a Tempi
Mario Mori, il generale dei carabinieri che ha fondato e diretto il Ros, e che tra il 2001 e il 2006 ha guidato il Sisde, il servizio segreto civile, è nato a Postumia, nella Giulia italiana. Lo scrive nell’incipit della biografia (“Ad alto rischio”) e non a caso. Come tutti i giuliani, l’abbandono forzato della casa natale ha forgiato il suo carattere, rendendolo ostinato, qualità che gli ha permesso di condurre le indagini più difficili, a cominciare da quelle contro le Br, nel Nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa, e quelle contro la mafia, con Giovanni Falcone. Come ad altri compatrioti giuliani – il campione mondiale di boxe Giovanni Benvenuti, o lo stilista e imprenditore Ottavio Missoni – le origini hanno dato a Mori tanto una sobria tenacia, quanto l’amore per il proprio paese, che si è sempre tradotto in un orgoglioso rispetto delle istituzioni.
Mori è oggi imputato a Palermo, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per una presunta trattativa con la mafia, sulla base delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Sul controverso accusatore (arrestato per truffa aggrava e detenzione di esplosivi) sono stati scritti libri ma se si chiede a Mori un commento, la sua risposta è sempre la stessa: «No. Ho fiducia nelle istituzioni e rispetto nella giustizia. Combatterò in aula. Così mi tengo vivo». In un’intervista pubblicata sul numero 51 di Tempi, in edicola dal 22 dicembre, il generale di ferro risponde alle domande su tanti misteri italiani a cui ha assistito in prima persona. Ecco alcuni stralci.
Mario Mori ricostruisce una delle operazioni più eclatanti condotte negli anni del Sisde, che nel 2006 gli ha permesso di raccogliere (in stretto accordo con l’allora procuratore di Palermo Pietro Grasso) informazioni sul boss Matteo Messina Denaro, ancora oggi uno dei quattro latitanti più ricercati al mondo, e ritenuto al vertice della Cupola di Cosa Nostra, direttamente dal superlatitante in persona. C’è riuscito grazie a una corrispondenza fittizia avviata tra un collaboratore del Sisde diretto da Mori, che era anche stato insegnante di Messina Denaro e sindaco del suo paese natale. «Poi successe qualcosa che non mi sono mai saputo spiegare» racconta. «venne a mancare la fiducia della procura di Palermo in un’operazione del Sisde, perché condotta da uomini che erano appartenuti al Ros. È stato l’ennesimo caso di una contrapposizione tra quella procura e il Ros».
Nell’intervista il generale Mori passa poi a ricostruire quello che è considerato uno degli episodi scatenanti della contrapposizione tra la procura di Palermo e il Ros dei Carabinieri: l’episodio della mancata perquisizione dell’ultimo covo di Totò Riina, in via Bernini a Palermo. «La verità è che sul covo di via Bernini, negli anni, sono nate tante leggende poi sfatate» prosegue il generale, descrivendo puntualmente le bufale circolate su questa vicenda e le prove della loro falsità. Nel corso dell’intervista, inoltre, racconta l’amarezza nutrita nei confronti del comando generale dell’Arma dei Carabinieri, «un corpo che alla base della sua efficienza ha il ferreo controllo della sua struttura, e a cui non può sfuggire il comportamento deviato, e che non ha mai preso posizione in difesa del Ros». Ha poi proseguito: «Provo amarezza per questo, ritengo che uomini che rischiano continuamente la loro vita devono avere la certezza che i loro capi ne conoscano l’attività e quando è necessario, sappiano difenderne l’onore». Mori infine si è soffermato sui motivi per i quali, ad avviso del generale, nel nostro paese si guarda sempre con sospetto alle attività di intelligence, sempre circondate dall’alone di possibili “trame oscure”.
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