Addio Birmania. Torna pure nell’oblio

Di Gian Micalessin
08 Novembre 2007
Terminata l'indignazione, spenti i riflettori, il paese è ancora sotto il controllodei generali e della Cina. Tutto previsto, compresa la "mediazione" dell'Onu

«I monaci? Mi passi l’olio per cortesia… ah quelli in Birmania… qualcosa ricordo, simpatici, ma poverini li hanno fatti fuori no? O sono in galera? Buona ‘sta pizza». Se qualche sera tra un boccone e l’altro vi tornano in mente i monaci o la Birmania, non indignatevi, non prendetevela con voi stessi. Siete in tanti. Il 99 per cento del mondo o giù di lì. Così doveva finire e così è finita. A Pechino l’avevan già deciso. I signori di quel mercato da un miliardo e 300 milioni di bocche da sfamare e portafogli da riempire lo avevano messo nel conto. Il tiranno Than Shwe e la sua giunta di undici sodali sono, si sa, una rogna. Sono, ça va sans dire, una complicazione difficile anche per un paese abituato a fatturare ai condannati a morte il costo delle loro esecuzioni. Ma quei dodici generali sono un male necessario. Rinunciando a loro Pechino vedrebbe svanire un po’ del gas, dell’oro, delle pietre preziose, del caucciù, nascosti nello scrigno alle porte di casa. Dovrebbe pagarli molto di più e contenderseli sul libero mercato con gli indiani o i soliti esosi occidentali. Per conquistarsi quel ben di Dio, nuovi mandarini e vecchi maoisti non sono stati con le mani in mano. Dal 1988 ad oggi – mentre a Rangoon ancora si seppellivano i tremila cadaveri della prima rivolta – hanno scommesso e investito sull’amicizia tra i popoli. Han pagato centinaia di milioni di dollari in infrastrutture, ferrovie, strade, dighe e aeroporti. Hanno costruito quel che serviva per agevolare sfruttamento e trasporto di materie prime e risorse energetiche. Non per il bene della Birmania, ma per quello dell’economia cinese. Per far funzionare i suoi preziosi investimenti, per sottrarli al controllo degli imprevedibili generali birmani e delle loro riottose minoranze etniche, Pechino ha persino aperto i suoi confini. Lo Yunnan – quel dito di Cina proteso a sud dove due decenni fa si dava ancora la caccia agli ultimi reduci del Kuomintang – è diventato la testa di ponte della penetrazione in Birmania. La nuova frontiera meridionale. Di là con il consenso di Than Shwe e dei suoi generali sono passati un milione e mezzo di clandestini cinesi. Clandestini per modo di dire. Corpi, gambe e braccia da impiegare nelle zone d’investimento cinese e da non far scappare altrove. Schiavi in trasferta del nuovo impero.
Tutto ciò non basta a spiegare il senso di fastidio provato dai nuovi mandarini alla vista di quei monaci e quei civili birmani convinti di poter conquistare la libertà con qualche marcia. Per capirlo bisogna inseguire lo sfavillio della fiaccola olimpica, la sua corsa verso Pechino. I rubini e il gas della Birmania sono ben poca cosa rispetto ai contratti e agli investimenti in vista dei prossimi giochi. Quando a metà agosto il popolo birmano è arrivato allo stremo, quando i primi illusi di Rangoon hanno incominciato a protestare per l’aumento del carburante, quando a settembre i sai color zafferano hanno incominciato a colorare i cortei, i mandarini di Pechino si sono inquietati. Non per i soliti quattro studenti, e i loro irreali aneliti di libertà. Non per quei monaci sicuri di poter piegare con qualche danza pacifica il braccio armato della dittatura. Non per quella cocciuta di una Aung San Suu Kyi, prigioniera delle solite quattro mura. Quelli, si son detti a Pechino, non posson neppure stavolta andar lontani. La rivoluzione non si fa con le belle parole di Laura Bush. Washington ha altri pensieri nel mondo e non muoverà né un dito né un soldato. E neppure gli altri, perché il manovratore astuto ha sempre riservato qualche scampolo di rubini, teak, gas e forniture di armi anche a Francia, India, Israele ed Europa.
In questo scenario da real politik cinese il pericolo vero eran gli alleati, gli incontrollabili generali. Per immaginare lo scenario più sgradevole i signori di Pechino non avevano bisogno di grande fantasia. Dovevano solo ripercorrere le cronache dell’88, ricordare le mitragliatrici puntate sui civili, le strade piene di cadaveri. Scene seccanti, soprattutto alla vigilia delle Olimpiadi. Dunque ordini semplici e chiari. Tenere sotto controllo Than Shwe e i suoi generali, farli agire con il guanto di velluto davanti alle telecamere, con il pugno di ferro nel buio della notte e nel silenzio dei media.

Due soli imprevisti
In tutto questo, due soli imprevisti. Quel tanghero d’un giornalista giapponese andato a farsi ammazzare sotto gli occhi di una telecamera e i computer dei funzionari internazionali pronti a trasmettere via satellite foto e filmati proibiti. L’imprevisto è durato solo 48 ore. è bastato qualche consiglio e nel ripristinato buio mediatico si sono rimossi i cadaveri, svuotati i templi, arrestati gli oppositori, riempite le galere. I generali marionette hanno risposto meglio del previsto. In breve tutto è stato pronto per la farsa negoziale e per il suo prim’attore Ibrahim Gambari. La prima toccata e fuga dell’inviato dell’Onu non è stata più di una comparsata. Una staffetta obbediente, una pedina rispettosa da muovere tra i fortilizi di Naypyidaw, l’inaccessibile capitale nella giungla costruita dal tiranno Than Shwe, e il quartiere di Rangoon dove la dissidente Aung San Suu Kyi ha trascorso agli arresti domiciliari 12 dei suoi ultimi 18 anni di vita. Più che mediare Gambari ha certificato la vittoria del regime, recitato il requiem per l’opposizione. Than Shwe, rispettando i consigli cinesi, ha usato quel fantasma della diplomazia internazionale per offrire al mondo un simulacro di moderazione. Si è detto pronto a riprendere i colloqui con la sua nemica pretendendone in cambio la rinuncia ad ogni pretesa, la trasformazione in mite oppositrice di facciata. Congedato Gambari, ha inviato alla reclusa un mediatore designato. San Suu Kyi non si è piegata e la farsa s’è chiusa lì.
A Pechino basta tener duro ancora un po’, basta impedire imprevedibili tragedie, fastidiose proteste o devastanti boicottaggi. Dopo i giochi tutto si dimenticherà. Sarà tutto come prima, come nell’88. Come negli ultimi cinquant’anni. Sarà solo il silenzio. Arrivederci Birmania. Arrivederci tra vent’anni.

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