Africa e distintivi

Di Gian Micalessin
02 Agosto 2000
Ieri il Kosovo, oggi la Sierra Leone. L’indignazione per l’ingiustizia, le guerre, la fame, reclama immagini, servizi speciali, storie strazianti. Quest’estate è il turno dei bambini soldato da associare alle inchieste sui “diamanti insanguinati”. La solita minestra del mondo diviso tra ricchi e poveri, tra greenpeacisti e orchi capitalisti, tra soccorritori Onu e sfruttatori delle multinazionali. La realtà è diversa, ed è, nel contempo, più complicata (e perfino più positiva) di quella, stereotipata e ideologizzata, che esigenze di spettacolo mediatico esigono sia cucinata all’opinione pubblica occidentale. Lettera da Freetown di un inviato speciale che non può vivere senza guerre da raccontare

Freetown. Cari amici, vorrei scrivervi dall’ “inferno della Sierra Leone”. Vorrei. Ma non lo trovo. Non vedo le fiamme, non vedo i dannati, non vedo i diavoli. O, meglio, li vedo qui come in qualsiasi altro luogo di questo Continente in decomposizione. Cinismo?. Forse. Purtroppo questo lavoro di scrivano delle disgrazie belliche è fatto di comparazioni, paragoni, raffronti. Emozionarsi va bene, ma con misura. Cominciamo dall’inizio.

Segnali di vita dal paese più povero dell’universo Arrivo a Freetown da Conacry, capitale della Guinea, tappa obbligata per tutti i viaggiatori in rotta verso la Sierra Leone. Conacry è un’icona dell’Africa del 2000. Strade con più buchi che asfalto, aria appiccicosa ammorbata da smog e rifiuti, masse di accattoni, pattuglie di poliziotti corrotti, case e palazzi marcescenti in veloce progressiva decomposizione. Se tanto mi da tanto la Sierra Leone deve essere molto peggio. In fondo mantiene, stabilmente, il posto di paese più povero dell’universo. Eppure Freetown è sostanzialmente una città intatta. Le distruzioni sono rare. Il degrado è nella media del continente africano. Ben oltre la media, invece, il numero di bimbi e ragazzi che in fila e in divisa guadagnano ogni mattina i portoni di scuole e licei. La gente ha volti sorridenti, facce gentili. Cerchi nei loro occhi quello stress da guerra che conosci e non lo trovi. Cerco i cinquemila mutilati che dovrebbero fare da contrappunto all’apparente tranquillità del paese. Ne trovo solo due. Un signore impiegato come usciere nella residenza del vescovo Giorgio Biguzzi e una mendicante in Kissy road, l’affollata via del mercato. Certo i mutilati vivono tutti in un piccolo villaggio nel cuore della città. Lì si sono riuniti i laboratori delle organizzazioni umanitarie che cercano di ricostruire un arto a questi disgraziati. I disgraziati comunque non sono cinquemila, ma 400. Se le cifre hanno ancora un senso vale la pena ricordarlo.

Pallottole, morti e rovine: è l’Africa, bellezza Viaggiamo al di fuori del paese. Troviamo strade impossibili, ingorghi inestricabili, gente stritolata sotto camion ribaltati su piste strette come sentieri, ponti ricostruiti con tronchi d’albero. Tutto tremendamente disagevole e drammatico rispetto all’Autostrada del sole. Ma nel resto dell’Africa non è che le cose vadano meglio. Certo: tutt’attorno ci sono guerra, distruzioni, profughi, bimbi soldato e la continua minaccia di attacchi della guerriglia. Eppure questo non è ancora l’inferno. O, meglio, è solo una parte di quell’inferno più grande che è oggi tutta l’Africa.

Insomma non riesco a fare bene il mio lavoro. Non riesco a propinarvi quella melassa angosciante che da qualche mese campeggia sulle pagine dei giornali. L’impressione è che gran parte di noi giornalisti si trascini sulla coscienza un senso di colpa. L’aver dimenticato la Sierra leone quando lì c’era veramente l’inferno. Quando i ribelli del Ruf entrarono a Freetown e massacrarono la popolazione. Quando i media occidentali già sintonizzati solo e soltanto sul Kossovo si dimenticarono di voltare la testa. Ma c’è anche un altro sospetto. Che queste guerre siano trattate ormai alla stregua di collezioni di moda. Un anno va la Somalia, un altro la Cecenia e quello dopo non si parla se non di Kosovo. Quello successivo, infine, è tutto per la Sierra Leone. Allora questa deve essere orrenda tanto quanto le altre. Meglio se peggio.

“Inferno Sierra Leone”. Istruzioni per l’uso Il cocktail “Inferno in Sierra Leone” è semplice. Ha ingredienti e dose prefissate. Per iniziare un po’ di orrori commessi dai bimbi soldati conditi con lo sdegno per l’utilizzo di questi marmocchi birichini. Secondo le sevizie del Ruf. Bisogna metterci almeno un paio di testimonianze di civili senza più mani e piedi, spiegare che ce ne sono almeno cinquemila (è la cifra ufficiale per gli addetti ai lavori) e snocciolare un po’ di interviste. Terza tappa obbligata i diamanti insanguinati. Bisogna ricordare che, un tempo, il paese era uno dei principali produttori mondiali di diamanti. Poi, senza dare troppe spiegazioni, lanciarsi in una filippica appassionata contro la De Beers e le altre multinazionali dei diamanti. Quarta tappa il fallimento dell’Onu. Un fallimento, ricordiamocelo bene, non dovuto a corruzione e inefficienza, ma piuttosto al disinteresse delle nazioni occidentali. Stati Uniti in testa. E qui una frecciatina a Washington, cinicamente attestato sul suo rifiuto di pagare il proprio debito al Palazzo di Vetro in mancanza di riforme strutturali, ci va a pennello. Quinto, ma fondamentale, l’attacco a testa bassa all’Occidente e alla globalizzazione colpevoli di sfruttare le disgrazie e le guerre dell’Africa nera. Miscelare, mescolare bene, aggiungere un paio di frasi ad effetto e la melassa-buonista sull’Inferno Sierra Leone è pronta da servire. Io per questa volta vi risparmio il cocktai. Mi limito a parlarvi degli ingredienti.

Quella pratica comune di arruolare fanciulli I racconti delle gesta e degli orrori commessi dai soldati bambini fanno la loro comparsa sulla stampa internazionale nel gennaio 1999, qualche settimana dopo la conquista di Freetown da parte dei ribelli del Ruf. Da allora, però, tutti omettono un particolare fondamentale. La conquista della città avvenne per mano del Ruf e dell’esercito impegnato, a quel tempo, in uno dei soliti golpe. Oggi l’esercito è tornato dalla parte del presidente Kabbah e viene addestrato da consiglieri militari inglesi. I suoi ufficiali sono più o meno gli stessi. Nel gennaio ‘99 i soldati bambini non stavano solamente tra le fila del Ruf, ma anche in quelle dell’esercito e dei Kamajores, la milizia filo governativa creata dalle tribù del sud. In quell’occasione i bambini soldato si distinsero per efferatezza e violenza. Bruciarono case, tagliarono mani, uccisero. Quando esercito e ribelli si ritirarono e le truppe nigeriane dell’Ecomog rientrarono in città molti bambini-soldati vennero abbandonati dietro le linee. Per sottrarli alla vendetta quasi certa delle truppe nigeriane (che massacrarono forse più civili dei ribelli scambiandoli per questi ultimi) questi bimbi vennero messi in salvo da missionari e organizzazioni umanitarie. Iniziò così la saga dei racconti.

I bambini africani non giocano alla guerra Certo la vicenda di questi fanciulli, rapiti a cinque otto anni, utilizzati come schiavi-portatori, selezionati, addestrati, trasformati in combattenti spietati, imbottiti di droghe per renderli insensibili alla paura e agli orrori, è tremenda. Bimbi addestrati come cani da combattimento. Ma siamo sicuri succeda solo qui? La tragedia dei bimbi soldato si ripete da decenni in tutti i conflitti africani. Nel 1986 Musseweni conquistò Kampala alla testa di un esercito costituito per la maggior parte da ragazzini sotto i quattordici anni. Nell’Uganda del nord i bambini continuano a venir rapiti e mandati a combattere in Sud Sudan. Nella Repubblica Democratica del Congo tutti gli eserciti coinvolti hanno bimbi soldati. La ricetta è cinicamente semplice. Il bambino soldato vede la guerra come un gioco, non ha capacità di giudizio morale, è facilmente influenzabile. E’ un perfetto cucciolo da guerra, un marmocchio da addestrare e mandare a commettere i lavori più sporchi. Purtroppo, però, le storie dei bimbi soldato in Sierra Leone non sono più tragiche e crudeli di quelle di altre migliaia di fanciulli in divisa, sparsi tra le guerre del resto del continente.

Sierra Leone. I buonisti chiedono più orrore Cinquemila mutilati sono una bella cifra. Se ci fossero non potresti fare a meno di vederli. In Mozambico ricordo padiglioni di ospedali e centri di recupero pieni zeppi di bimbetti saltati sulle mine. Fanciulli senza più gambe, braccia, occhi. Cambogia e Afghanistan sono costellati di villaggi interi abitati da persone devastate dalle mine. La loro presenza agli angoli delle strade, nei campi, ai margini dei mercati, delle città è difficilmente ignorabile. In Sierra Leone c’è soltanto questo campo per mutilati gestito da Medici Senza Frontiere e da Handicap International. Da lì passano tutti i giornalisti, in una specie di obbligato tour dell’orrore. Dentro ascolti naturalmente storie orribili. Incontri una donna a cui hanno tranciato le gambe a colpi d’ascia, due sorelle mutilate di entrambe le mani, uomini senza più braccia, gambe, piedi. Ma sono le proporzioni dell’orrore a non esser devastanti. Fare i conti è sempre spiacevole. Soprattutto per quei disgraziati mutilati a colpi di machete. Eppure 400 è un numero 12 volte più piccolo di cinquemila. Saranno sottigliezze numeriche, ma fanno la differenza.

Sangue e diamanti. Una storia antica La storia dei diamanti della Sierra Leone è molto complessa, intricata e antica. Molto di più di quanto non ci voglia far credere la retorica buonista alla ricerca perenne delle colpe delle multinazionali. Il primo diamante viene scoperto nel 1930. Cinque anni dopo le autorità coloniali concludono un accordo con la De Beers, assegnandole concessioni e diritti esclusivi di sfruttamento fino al 2034. Nel 1956 nelle zone diamantifere vi sono già 75mila cercatori illegali che sgomitano fianco a fianco per sottrarre pietre preziose alle concessioni De Beers. Il contrabbando fiorisce, la zona precipita in una situazione d’illegalità endemica. La via obbligata dei contrabbandieri passa già allora attraverso la Liberia. L’odore dei diamanti, l’ebbrezza dei traffici illeciti e levantini attira frotte di commercianti libanesi. La De Beers e il governo stentano a far rispettare le concessioni nonostante l’arruolamento di milizie anti-contrabbandieri. I commercianti di Anversa e Tel Aviv iniziano ad aprire uffici di acquisto a Monrovia e ad approvvigionarsi sul mercato liberiano. Chi ci rimette, a quel tempo, è sicuramente la De Beers titolare dei diritti legali di sfruttamento.

La situazione peggiora nel 1968 quando sale al potere Siaka Stevens. Inebriato dal populismo di sinistra Siaka Stevens trasforma la questione di diamanti in una sorta di lotta post-coloniale contro i vecchi padroni delle risorse incoraggiando il contrabbando e limitando la concessioni della De Beers. Il passo successivo è la nazionalizzazione, nel 1971, della sussidiaria locale della De Beers titolare delle concessioni.

Siaka Stevens. Terzomondismo e contrabbando internazionale Dietro gli slogan terzomondisti di Siaka Stevens si nasconde un personaggio molto più pericoloso. Si chiama Jamil Mohammed ed è il primo ministro di Siaka Stevens. Vera eminenza grigia del malaffare Jamil, amico intimo dei contrabbandieri di preziosi, quest’uomo sarà il demiurgo di tutte le disgrazie della Sierra Leone. Jamil da mano libera ai contrabbandieri, partecipando lui stesso ai lucrosi commerci. Lentamente le quote di produzione ufficiale si assottigliano. Tra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta gran parte dei diamanti esce dal paese attraverso i canali illegali gestititi da Jamil e dalla confraternita libanese. Una parte di questi diamanti finisce con il finanziare le fazioni impegnate nel conflitto libanese. Tra queste soprattutto i militanti sciiti di Amal il cui leader, Nabih Berri, è un amico d’infanzia di Jamil. Intanto l’economia ufficiale del paese va a rotoli. Nel 1987 la situazione precipita e Jamil si ritira in un dorato esilio. Nel 1991 iniziano la guerriglia del Fronte Rivoluzionario Unito e i colpi di stato militari. A quel tempo il Ruf è, a tutti gli effetti, una guerriglia di sinistra ispirata da un gruppo di intellettuali radicali. In Liberia Charles Taylor, un ex mezzo criminale è alle prese con le truppe dell’Ecomog. Monrovia si è trasformata intanto in un ricettacolo di criminali internazionali, contrabbandieri e trafficanti di droga. Il Ruf accetta volentieri l’appoggio di Taylor e insedia i propri santuari in Liberia. In cambio dell’aiuto si impegna a cedere i diamanti o perlomeno a scambiarli in cambio di armi. Mentre i colpi di stato si susseguono il paese precipita nel caos e il Ruf dilaga.

Gli interessi di Freetown in una guerra commerciale La De Beers intanto si è già ritirata dal paese. L’ufficio di rappresentanza è stato chiuso alla metà degli anni ‘80. La De Beers ha aperto nel frattempo due uffici di acquisto nei paesi confinanti: uno a Conacry in Guinea e un altro proprio a Monrovia. La politica di questa multinazionale del diamante è primariamente quella di mantenere il controllo del mercato. Là dove non è possibile accedere alla produzione si accontenta di acquistare i diamanti grezzi e rimetterli sul mercato attraverso i propri canali. A rimpiazzare la De Beers in Sierra Leone arrivano le cosiddette “junior”, compagnie minori che operano nei luoghi in cui non è presente il colosso multinazionale. Le concessioni vengono divise principalmente fra tre juniors: la RexDiamond, la AmCanMinerals e la Diamond Works. Ufficialmente tutte e tre queste compagnie sono canadesi. Ma si tratta di nazionalità di comodo. Il Canada oltre a offrire attraenti sgravi fiscali a chi opera nel settore minerario, da accesso alla borsa titoli più attiva del settore. In verità Rex Diamond, AmCan e DiamonWorks sono aziende legate ai gruppi di commercianti di diamanti di Anversa e godono di solidi legami con il governo di Freetown. Il legale della AmCans in Sierra Leone è anche il presidente dell’“Ufficio Governativo per l’Oro e i Diamanti”. La RexDiamond nel 1998 acquista un nuovo elicottero da combattimento per conto del governo della Sierra Leone. La Diamond Work, infine, risulta intimamente legata, forse comproprietaria, di due “compagnie private” di mercenari: la “Executive Outcome” sudafricana e la “Sandline” inglese. Il governo della Sierra Leone “affitta” i servizi della Executive Outcome nel 1995. Grazie all’impiego di soli duecento mercenari e ai loro sofisticati armamenti l’Executive Outcome in una sola settimana respinge i ribelli dalla zona della penisola intorno a Freetown. In cambio una consociata della Diamond Work guadagna 25 anni di concessioni nell’area diamantifera di Kono, considerata la più importante del paese. Nel 1997 entra in gioco la Sandline che gestisce, con la benedizione del governo di Tony Blair, una controversa fornitura d’armi al governo, provvisoriamente in esilio, del presidente Tejan Kabbah.

Diamanti: nessuno è incolpevole (anche Tony Blair è nella lista dei cattivi) L’aneddotica ufficiale sulla Sierra Leone, si limita a ricordare la guerra dei diamanti gestita dal Ruf. La guerriglia controlla stabilmente i giacimenti più ricchi del paese nelle regioni nord orientali. Da qui il 70 per cento della produzione diamantifera della Sierra Leone è convogliata a Monrovia. Con quei diamanti vengono pagati armi munizioni e guerriglieri. Con quei diamanti la Liberia si trasforma, pur senza produrne, in uno dei massimi esportatori mondiali. Ma questo si sa. Dato per assodato che il Ruf e la Liberia stanno al primo posto nella lista dei cattivi bisognerebbe forse guardarsi attorno e chiedersi se c’è qualcuno degno di fargli compagnia. Bisognerebbe chiedersi se sia lecito o ammissibile che un’azienda diamantifera in stretto accordo con una compagnia di soldati di ventura finisca con il ritagliarsi un ruolo geopolitico in un angolo d’Africa. Chiedersi se un governo come quello di Tejan Kabbah sia legittimato a stringere accordi con compagnie rappresentate nel paese da funzionari governativi. Domandarsi se sia accettabile che attraverso queste compagnie passino le forniture di armi in arrivo dalla Gran Bretagna. Si può fare buon viso a cattivo gioco e accettare tutto se si tratta del male minore. Però bisogna saperlo. Prima di invitarvi ad essere scrupolosamente solidali, vorremmo farvi sapere che quel governo ha intrallazzato con i mercenari e distribuito concessioni a chiunque fosse in grado di dargli una mano. Con le buone o con le cattive. Con mezzi leciti o illeciti. Con i soldati delle Nazioni Unite o con quelli di ventura. Soltanto così capiremo che un po’ di sangue sui diamanti ci sarà sempre. E perché, a Natale, si devono acquistare soltanto quelli un po’ meno sporchi.

Kofi Annan e una strana (e costosa) missione Onu In Sierra Leone vi sono circa tredicimila caschi blu. Sono stati raccattati in fretta e furia in India, Guinea, Ghana, Kenia, Nigeria e Giordania. Sono il contingente di caschi blu più numeroso e costoso fra le missioni Onu attualmente in corso. E anche il più inutile e fallimentare. Il trattato di pace che dovevano garantire è andato a rotoli. I ribelli controllano oltre metà del paese. I caschi blu sono stati presi in ostaggio. Hanno contribuito a ingrossare, con le loro armi e dotazioni, consegnate senza combattere, gli arsenali ribelli, dotandoli di mezzi blindati, camion e jeep. Gran parte dei territori ancora in mano governativa sono difesi soltanto ed esclusivamente dalle milizie locali. I caschi blu, al di fuori di Freetown, sono un’entità fantasma. Non si vedono, non pattugliano, non fanno posti di blocco. In Sierra Leone, però si parla molto di loro. Si sussurra che questa missione sia stata fortissimamente voluta dal segretario dell’Onu Kofi Annan. Si ricorda come il presidente della Sierra Leone occupasse, prima di venire eletto, un posto di alto funzionario al Palazzo di Vetro. I dettagli dell’intervento Onu, si mormora, sono stati discussi da Kofi Annan e dal suo intimo amico, il ministro delle finanze della Sierra Leone James Jonaah. I due abitualmente trascorrono le vacanze assieme. Entrambi hanno sposato due europee. Le consorti sono amiche d’infanzia. Tra una cena di famiglia e l’altra, dicono le male lingue della Sierra leone, i due amiconi hanno anche trovato il tempo di organizzare questa inutile, costosa e disgraziata missione.

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