
L’Ue viene condannata, ma pagherà l’Italia. Il salasso della “faida dei cieli”

Quando ad agosto l’intera comunità internazionale appoggiò la nascita del governo giallorosso, tutti ne dedussero che abbandonando il clima di scontro con l’Ue fomentato da Matteo Salvini, i rapporti internazionali dell’Italia avrebbero conosciuto una nuova età dell’oro. Quando poi Donald Trump twittò a favore di “Giuseppi” Conte, Claudio Cerasa scrisse ad esempio sul Foglio che il presidente americano preferisce «un governo che promette di sentirsi a casa più a Washington che a Mosca». Ma a che cosa serve questa preferenza se, giunti alla prova dei fatti, gli Stati Uniti si apprestano a stangare l’Italia per farle pagare colpe di Bruxelles?
LA FAIDA DEI CIELI
Il 30 settembre il tribunale del Wto (Organizzazione mondiale del commercio) si è riunito per concludere la cosiddetta “faida dei cieli”, iniziata nel 2004 tra il costruttore americano Boeing e il consorzio europeo Airbus per l’erogazione di sussidi illeciti sia da parte di Washington che di Bruxelles. La prima sentenza definitiva non è ancora uscita, ma con ogni probabilità riconoscerà agli Usa il diritto di imporre 8 miliardi di dollari di dazi all’Unione Europea.
Gli Stati Uniti hanno già fatto preparare la lista delle merci da penalizzare. Da Washington, spiega il Corriere, hanno fatto sapere di essere pronti ad applicare prelievi fino al 100 per cento del valore delle merci. Un primo blocco di quattro miliardi andrebbe a toccare il comparto dell’aeronautica dei Paesi che fanno parte del consorzio Airbus e cioè Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Gli altri quattro, invece, dovrebbero colpire il settore agroalimentare. E qui cominciano i problemi perché l’Italia, pur non facendo parte del consorzio Airbus e non avendo quindi responsabilità nella diatriba, potrebbe subire danni fino a un miliardo di dollari.
STANGATA DA UN MILIARDO PER L’ITALIA
Secondo il Corriere, il conto finale «dipenderà dalla percentuale del prelievo e dalle filiere penalizzate. Le più esposte sono quelle dell’agroindustria: formaggi dop, come Parmigiano Reggiano, Grana, Mozzarella, Pecorino; vini, spumanti e liquori; olio d’oliva; pasta; caffè; salumi. Nel complesso il mercato statunitense vale 5,2 miliardi di dollari per l’alimentare italiano».
Si rischia di arrivare al paradosso per cui non solo l’Italia non riceve solidarietà nel momento del bisogno, per quanto riguarda i migranti ad esempio, ma si ritrova a pagare un conto salatissimo per gli errori compiuti da Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Ieri il segretario di Stato Mike Pompeo è arrivato in Italia e pur non occupandosi di dossier commerciali, è probabile che il governo abbia cercato di porre il problema:
«I fondi ad Airbus sono stati erogati dall’Unione europea, di cui l’Italia fa parte. Ma il governo farà presente che, se le indiscrezioni sono corrette, le tariffe doganali si abbatteranno in modo sproporzionato sull’agricoltura italiana. Un conto è pagare, chiamiamola così, la giusta quota della multa Wto; altra cosa è subire un accanimento».
ALLA FACCIA DEL «CLIMA NUOVO»
È anche possibile che la Casa Bianca utilizzi la minaccia dei dazi per «negoziare una maggiore apertura dei mercati europei», cosa che avrebbe comunque un impatto sulle merci italiane. Bruxelles, inoltre, come ha ricordato il Sole24Ore, «ha a lungo proposto a Washington una soluzione negoziata, con l’obiettivo di arrivare a una disciplina concordata dei sussidi erogati all’aviazione civile, attraverso un trattato bilaterale».
Le ripercussioni della “faida dei cieli” sui produttori italiani sono ancora incerte. L’unica cosa sicura è che non basta un tweet per costruire un rapporto internazionale, così come non basta una pacca sulle spalle da parte della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, o dei ministri dell’Interno di Francia o Germania, per parlare di «clima nuovo» (copyright Giuseppe Conte) in Europa. Salvini e il governo gialloverde non si sono certo dimostrati capaci (eufemismo) in politica internazionale, ma il nuovo governo giallorosso e il suo ministro degli Esteri Luigi Di Maio, quello che scandiva raggiante «I speak english very well» negli studi di “DiMartedì”, non sembrano in grado di ottenere risultati migliori.
Foto Ansa
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