
Alessandro Profumo, l’ex banchiere dal volto umano
Storicamente l’espressione facciale di Alessandro Profumo oscilla fra pose tenebrose, sopracciglia sollevate e sorrisi tirati. Ma da qualche giorno è passata al corrucciato fisso, e il sempiterno zainetto più che il trendsetter sicuro di sé evoca un attempato studente in difficoltà con la sessione d’esami. Il turbamento che affligge quello che incautamente è stato definito «il banchiere dal volto umano» è duplice. A turbarlo sono le conseguenze dell’uragano che ha investito Monte dei Paschi di Siena, alla cui presidenza è stato chiamato meno di un anno fa; ma ancora di più i sospetti che da più parti si appuntano su di lui, ritenuto la longa manus che avrebbe fatto avere al quotidiano il Fatto le carte dell’accordo segreto fra Mps e Nomura volto a occultare un buco di bilancio da 220 milioni di euro.
Profumo ovviamente nega, protesta che uno scandalo come quello che è appena scoppiato crea solo grattacapi aggiuntivi alla banca che lui è stato chiamato a rilanciare. Ma le gole profonde insistono e propongono teoremi. Secondo alcuni il banchiere sarebbe strumento di un’operazione di marca prodiana per azzoppare Giuliano Amato nella corsa alla successione di Giorgio Napolitano al Quirinale; secondo altri si sarebbe mosso per indebolire le fortune elettorali del Pd e rendere inevitabile un accordo post-elettorale con la Scelta civica di Mario Monti, col quale ci sarebbe una convergenza di vedute su quel che bisogna fare nel mondo bancario italiano; secondo un’altra interpretazione ancora, da manager spietato perennemente in conflitto sia coi sindacati dei bancari che con le fondazioni di riferimento delle banche quale è sempre stato, Profumo avrebbe compiuto una mossa che mette con le spalle al muro i suoi potenziali avversari, gli evita di apparire complice di operazioni compiute prima del suo arrivo, e gli permette di attribuirsi tutti i meriti del futuro possibile rilancio in grande stile della banca. Fosse vera una delle tre ipotesi, si dovrebbe parlare di ingratitudine dell’ex ad di Unicredit nei confronti del Pd. È stato infatti il partito di Bersani a dargli la possibilità di tornare ai massimi livelli della finanza internazionale spingendolo alla presidenza della terza banca italiana nonostante fosse in corso su di lui un’inchiesta per frode fiscale, trasformatasi il 5 giugno scorso in rinvio a giudizio insieme ad altre 19 persone per aver fatto passare per dividendi 245 milioni di euro che dovevano invece essere tassati come utili quando era a capo di Unicredit.
Quel che vale per i suoi candidati alle elezioni, esclusi se avevano indagini o rinvii a giudizio a carico, il Pd non lo ha fatto valere per il presidente della sua banca di riferimento: a lui non sono state chieste le dimissioni e viene presa per buona la difesa che si è trattato di «ottimizzazione fiscale» e non di frode. Ma Profumo è uomo assetato di rivincita, perciò la gratitudine passa in secondo piano. Quando, due anni e mezzo fa, era stato messo alla porta da Unicredit (con una buonuscita pari a 40 milioni di euro) per volontà dei soci tedeschi e delle fondazioni torinesi e veronesi (Crt e CariVerona) col pretesto di non averli avvertiti dell’aumento della quota di capitale degli investitori libici, sul Financial Times era apparso un vero e proprio necrologio del banchiere italiano. «L’eredità di Profumo avrebbe potuto essere quella di aver trasformato il settore bancario italiano. Invece sarà quella di non essere riuscito a costruire un edificio più durevole». Nel primo decennio del nuovo secolo Profumo aveva condotto vere e proprie campagne napoleoniche: acquisizioni in Germania, Austria, Polonia, Repubblica Ceca eccetera per 60 miliardi di euro, migliaia di dipendenti delle filiali assorbite mandati a casa in grandi operazioni di razionalizzazione. Poi arrivarono gli anni della crisi, e lo sforzo fatto per creare uno dei più grandi gruppi europei divenne piombo nelle ali. Il titolo, che aveva visto moltiplicare per sei le sue quotazioni, nel 2009 perdeva l’80 per cento del valore. Mps per Profumo è come Parigi per Napoleone dopo il ritorno dall’Elba: se perde ancora, finisce a Sant’Elena.
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