
Alla salute del ministro Turco
Carissimi lettori di Tempi, un saluto e un grazie a chi ci consentirà – spero a lungo – di sottoporvi considerazioni un po’ “pepate”. Senza star lì inginocchiati ai luoghi comuni e ai sedicenti “poteri forti”, che dominano la quasi totalità dell’informazione italiana. E che spesso hanno convenienza a lisciare il pelo a chi è al governo, perché in cambio hanno qualcosa da chiedergli, o da temerne. La mia regola è una. All’oggettività dell’informazione non ho mai creduto. è la sincerità di chi scrive l’unico metro da offrire. Ricordandosi di Oscar Wilde che ammonisce che un po’ di sincerità è pericolosa, e molta assolutamente fatale. Ma soprattutto di Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: uno solo deve essere il nostro vanto, esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso gli altri, con la sincerità prima che con la sapienza della carne.
Il primo graffio è sulla sanità. La defenestrazione da parte del ministro della Salute del direttore scientifico del Regina Elena Francesco Cognetti è più di una brutale applicazione dello spoils system. Basta osservare le prime mosse delle sei Regioni che hanno sfondato il tetto di rientro di spesa sanitaria, per capire che sulla sanità verrà portata una nuova offensiva “ideologica”. Tutti i tagli nell’offerta come nei servizi proposti nel Lazio dalla giunta Marrazzo sono alla sanità privata. La dichiarazione di guerra del ministro Turco ai primari a cavallo tra pubblico e privato e quelle sull’intramoenia sono il ritorno al “tutto pubblico”. Una filosofia sbagliata. Nei suoi presupposti culturali, perché il nostro paese vanta una quota assai rilevante di esperienze private – a fini non di lucro prima che profit – radicatesi nei secoli nella società civile, e che negli ultimi decenni hanno trovato nella libera contribuzione nuova linfa finanziaria: il suo credo è “chi sa fare faccia, e farà meglio”, l’architrave della sussidiarietà che va difesa ed estesa nella società italiana, contro ogni rivincita statalista. La seconda ragione per cui il “tutto pubblico” è sbagliato, è che non fa i conti con le risorse necessarie alla sfida di una sanità in cui la domanda sempre più chiede di ridurre le asimmetrie di informazione, trattamento e successo di cura.
Chi crede nella sussidiarietà, dovrà far battaglia dura. All’efficienza della bandiera del modello tutto pubblico, l’Emilia Romagna, bisogna contrapporre invece il modello della Regione Lombardia. Certo, molto c’è da sistemare. Ma una legge come quella regionale lombarda n. 31 del 1997, che centra il sistema sulla libera scelta del cittadino circa il professionista o la struttura presso cui ricevere i servizi, parità di funzione e status tra strutture pubbliche e private purché accreditate, e distinzione tra il ruolo degli enti committenti (le Asl) da quelli erogatori (le aziende ospedaliere pubbliche o private accreditate) costituisce una triade che bisognerà avere la forza di indicare implacabilmente ai nuovi statalisti. La garanzia di curarsi meglio e di un’assistenza adeguata a una società sempre più “anziana”, non passano affatto per i pianificatori di Stato cari alla sinistra.
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