
Almeno a te posso dirlo che c’è differenza tra guadagnare 5 milioni e guadagnarne 7?

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Cara Guia, ho diciott’anni e mezzo, sono multimilionario, e ti vorrei parlare dei miei problemi esistenziali. No, aspetta, non cancellare il messaggio imprecando. Lo so pur’io che se uno ha giovinezza e soldi non deve farsi menate perché il più è fatto (la salute senza i soldi è una mezza malattia, dice un mio collega ligure). Il fatto è che le menate mentali non sono mie: il guaio sono gli altri. Gli altri pensano che io mi strugga. Gli altri pensano che io abbia dei doveri (oltre a quello di investire saggiamente i milioni). Gli altri pensano che dovrei accontentarmi di quel che ho (in questi giorni ho sentito gente dire che tra guadagnare cinque milioni l’anno e guadagnarne sette non c’è differenza: ma questi lo sanno quanto costa il pieno di benzina dell’elicottero?). Io, te lo giuro, non penso. Non mi è proprio mai capitato. Quando la mia ragazza mi chiede «A cosa stai pensando?», io dico «A niente», e lei strilla che sono bugiardo. Secondo me questa che stai per forza pensando a qualcosa è una leggenda.
Comunque. Quando hai diciott’anni e sei multimilionario, come ti comporti? Per quelli che i soldi li ereditano forse ci sta qualche galateo che imparano da piccoli, ma io sono di Castellammare. Cioè, dalle mie parti non è che i soldi senza rischiare la galera li fanno in molti. Però niente, là fuori pare che il codice di comportamento lo conoscono tutti, tranne me. Dimmelo tu: che devo fare? Restare fedele alla compagna di banco a ragioneria, alle radici, ai cinque milioni che non saranno sette ma sennò per strada mi strillano che sono avido e c’è gente che non arriva a fine mese? (Ma che, è colpa mia se non arrivano a fine mese? E poi più soldi ho da spendere più c’è gente che può arrivare a fine mese servendomi bottiglie costose nei privé della Costa Smeralda; io a ragioneria ero una pippa – ero già impegnato a fare milioni – però da piccolo giocavo a Monopoli e insomma l’economia la capisco pur’io: se stai a Parco della Vittoria spendi di più che se stai attento agli spicci a Vicolo Corto, no?).
Che devo fare? Sentirmi in colpa di fronte al lutto nazionale? Intanto mi hanno raccomandato di non dire che la nazione dovrebbe stare in lutto per cose più serie, però a te posso dire che lo penso? Poi oh, l’amore passa. Eravamo giovani, credevamo fosse per sempre, e poi invece no. È così grave? La gente si lascia, la gente trova altra gente più sexy, più ricca, più panoramica. Solo io devo restare tutta la vita a rimpiangere quei due milioni in più che non ho preso per rimanere con la fidanzatina che mi ha voluto da piccolo? E se poi mi molla lei? E se poi quando mi molla la prossima che mi vuole è una precaria che non può neanche offrirmi una cena? Insomma: dammi ragione, almeno tu.
Gianluigi D.
Caro Gianluigi, non sono sicura d’aver capito se la fidanzata sia davvero una fidanzata, o una poderosa metafora, però una volta mi hanno raccontato di un comico che, negli anni Ottanta, quando lo chiamavano a fare qualche serata di cabaret per la quale non doveva emettere fattura e intascava quindi un invidiabile cachet esentasse, lo annunciava agli amici con la frase «Vado a fare una rapina». Ogni tanto lo vedo al tg e penso che era molto meglio quando faceva le rapine. Ma scusa, mi sono persa nella mia divagazione. Era per dire che i soldi non ti tradiscono: non ti trovano ingrassato, non hanno bisogno di una pausa di riflessione, non hanno incontrato un’altra che «li prende di testa». I soldi sono il miglior investimento sentimentale che tu possa fare, altro che radici, altro che simboli, altro che chiacchiere. I soldi non se ne vanno mentre dormi perché hanno bisogno di spazio e non ti lasciano con un WhatsApp con la faccetta triste. E poi hai 18 anni: fino all’anno scorso non potevi neanche comprarti uno straccio di Ferrari. Presentameli, questi san Francesco col conto corrente degli altri che stigmatizzano l’avidità. Scommetto che li mantengono ancora i genitori. E non a diciott’anni: a trentotto.
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