
Altro che tonno, Palamara è il pesce siluro della casta giudiziaria

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
«La magistratura è un corpo dello Stato, non un potere politico. Rifondare la giustizia». Questa la formidabile fotografia dello stato sudamericano della giustizia italiana, fotografia nata dal genio berlusconiano che è formidabile: punto primo, perché Silvio Berlusconi ha avuto vent’anni e passa per conoscere i suoi polli che non lo hanno mollato un solo istante da che decise di scendere in politica (1994); punto secondo, perché è precisa, non fa la morale, non si concede alle emozioni, non evoca con retorica scialba la Costituzione, bensì dice con esattezza ciò di cui l’Italia avrebbe disperato bisogno, al netto di tutti i gossip e chiacchiericci sulle decine di migliaia (decine di migliaia!) di sms, chat, tweet che il pg della Cassazione Giovanni Salvi si è preso la briga di esaminare con la collaborazione di un pool di sostituti procuratori creato ad hoc per verificare se, oltre le accuse (di corruzione) dei pm di Perugia, il magistrato Luca Palamara, già membro del Csm e già presidente dell’Anm, ha trascinato con sé nel baratro altri colleghi.
Il caso Luca Palamara, ricordiamolo, è un incidente. Nasce per la testardaggine di voler contendere alle componenti di sinistra della magistratura il posto di capo procuratore a Roma dell’uscente Giuseppe Pignatone, scuola Giancarlo Caselli, ex-neo-post comunista e archetipo del professionismo antimafia. Pignatone finirà nientemeno alla presidenza del tribunale del Vaticano, la più importante autorità giudiziaria della Santa Sede, e a collaborare con il quotidiano Repubblica. Mentre Palamara è finito indagato a Perugia con l’accusa di corruzione (la nomina di un collega in Csm in cambio di 40 mila euro).
Il famigerato trojan
L’imponenza del’ipotesi di reato – con l’aggravante del magistrato – ha consentito l’utilizzo del famigerato trojan. La microspia che ha mappato h24 la vita pubblica e privata del Palamara. A sorpresa, una settimana fa è caduta l’accusa di corruzione. Quindi anche il trojan non si sarebbe potuto utilizzare. Pur tuttavia, da un litigio di poltrone è venuto fuori un grande casino. Pensate che coincidenza. Nel momento in cui hanno iniziato a circolare le intercettazioni del cavallo di Troia che ha registrato pure i respiri del buon Palamara (e soprattutto ha registrato una fantastica corte dei miracoli intorno al magistrato considerato un vero e proprio passepartout della categoria per qualunque porta, fossero anche quelle blindatissime delle poltrone apicali della magistratura, capo procuratore, Csm, Cassazione), la procura di Perugia ha ridimensionato l’accusa a poca roba non più grave di una mancanza di aplomb istituzionale.
Malauguratamente il trojan ha fatto il suo corso e, sia pur secretati, gli atti hanno cominciato a circolare. Distribuiti ai giornali secondo un ordine sapiente, consapevole delle diverse modalità e sensibilità delle testate. Dico la verità: io penso che, intelligentemente, sia stato lo stesso indagato a far conoscere in giro le imprese del grande faccendiere che egli è della Casta giudiziaria. Dopo di che ha messo in imbarazzo il ministro della Giustizia, che ha dovuto rinunciare a un suo collaboratore. E, soprattutto, la divulgazione delle intercettazioni ha messo per la prima volta in grave ambascia l’intero corpo della magistratura medesima.
Potete immaginare il fastidio di un togato nel leggere su un foglio di giornale il riferimento triviale a una “Magistratopoli”, dopo che sul modello “Tangentopoli” il giornalismo manettaro ha fatto carne di porco con gli indagati oggi per una “sanitopoli”, domani per una “affittoppoli” e tra le more, tendenza Woodcock, perfino una “vallettopoli” (pelo in cambio di buoi) con un erede alla corona di Savoia?
«Guarda che lo dico a Travaglio»
Tenete presente che Luca Palamara è un fenomeno della giurisprudenza italiana. Altro che “tonno”, come maleducatamente lo insultò Francesco Cossiga. Laureato a soli 22 anni alla Sapienza di Roma e con un 110 e lode, ha fatto meglio del mitico Antonio Di Pietro. Di Pietro si è laureato in legge e poi ha fatto una super carriera in polizia facendo l’operaio di giorno e lo studente lavoratore di notte. Palamara a 28 anni era già sostituto procuratore a Reggio Calabria. A 32 sostituto a Roma. E a 38 è addirittura presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Altro che tonno. Palamara è un pesce siluro che a 44 anni è membro Csm. Dopo di che diventa il famoso passepartout a cui si rivolge il mondo della magistratura. E non solo. Come dimostra la prece di Raoul Bova e la tiratina di orecchie del pubblico ministero Annamaria Picozzi (nuovo procuratore aggiunto di Palermo, dicembre 2018) che ha minacciato Palamara di rivolgersi al Fatto quotidiano («guarda che lo dico a Marco Travaglio»). Insomma, se io fossi Luca Palamara, che per un incidente è finito nel tritacarne e che per una bella polizza assicurativa ne è pazientemente uscito, andrei lo stesso avanti a fare il matto. Metterei all’asta la mia strepitosa biografia e vuoterei il sacco sull’unico vero grande potere politico rimasto in Italia.
Tenete conto che Marco Travaglio se la ride perché il suo giornale è andato in Borsa grazie al connubio che ha avuto con questo potere. E non dimenticate che i cinquestelle sono il partito di cosa loro. Per mettere sotto la democrazia elettiva rappresentativa e farci diventare pecore da tosare, hanno fatto due cose semplici semplici all’inizio e alla fine della parabola dell’Italia ridotta a penisola della desolazione.
1) Hanno tolto – grazie all’iniziativa abrogativa avviata da Oscar Luigi Scalfaro nel 1992 e perfezionata da Giorgio Napolitano nel 1993 – l’immunita parlamentare voluta dai padri della Costituzione per garantire che il Parlamento fosse libero da ogni possibile ricatto.
2) Hanno ridotto il numero dei parlamentari in modo che gli eletti siano sempre meno rappresentanti del popolo e sempre più espressione di una élite di ricchi e svagati cazzoni in cerca di mondanità nel bordello romano.
Reintrodurre l’immunità parlamentare
Ecco, mentre andava in onda questa parabola 1993-2019, mentre Beppe Grillo diventava il servo sciocco di Piercamillo Davigo, la magistratura ha fatto il bello e il cattivo tempo. Fino a sbracare per noia di un potere che non ha limite. Voi lettori forse sapete o non volete saperlo, però è così: un pubblico ministero può scriversi una lettera anonima e aprire un fascicolo di indagine sul politico che gli sta antipatico. Può altresì minacciare un giudice di inchiesta se questi non lo aiuta a fare carriera in Corte di cassazione. Può fare il giudice di ultima istanza e al tempo stesso l’opinionista tv. Oppure può fare il Palamara incidentato. Ma che improvvisamente non è più un corrotto.
Italia sudamericana che in trent’anni ha perso tutto il benessere del Dopoguerra perché è stata costretta a mettersi nelle mani dell’unica vera grande Casta degli impunibili anche se corrotti. Non ne usciremo – per essere minimalisti – se non con la separazione delle carriere tra pm e giudici (e tra pm e giornalisti). La riforma del Csm. L’abolizione dell’obbligatorietà (massima delle ipocrisie) dell’azione penale. Ma nessun parlamento farà delle riforme così elementari se non si restituirà ai parlamentari l’immunità che i padri costituenti sapevano rende liberi dalla pistola alla tempia che il potere giudiziario ha puntato alla testa degli eletti dal popolo.
Dopo di che, Piero Fassino credeva di avere una banca. Questi hanno sul serio un giornale che è andato in Borsa. E possiedono pure tutti gli altri giornali. Che sono andati non diciamo dove, piuttosto che stare di guardia ai fatti e alla democrazia. Piuttosto che fare il loro dovere di quarto potere.
Foto Ansa
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