Amare Barbie finché non ti rifila il fervorino della Ferragni a Sanremo

Altro che woke, altro che femminismo, altro che marketing, altro che editorialisti di tutto il mondo, viva la regista Greta Gerwig, pensi inebriandoti di rosa, eccessi e caricature. Finché non arriva il colpo di scena più caro a Hollywood: il pistolotto

Margot Robbie è Barbie Stereotipo nel film diretto da Greta Gerwig

«Non ho capito». In effetti la fine di Barbie ha a che fare con la vagina, mica puoi spiegare le battute a una dodicenne ignara di aver assistito a un film che secondo gli editorialisti di mezzo mondo è metafora della lotta di genere, no, è il suo opposto, no, è un’operazione culturale, no, è un’alta prova autorale, no è embedded marketing, no, è distopia, macché, esistenzialismo, no, è una cagata pazzesca, no, è critica sociale, no, è elitismo da sottotesto, no, è il popolo bue che non coglie i riferimenti.

Vestite da Barbie o da cinema indipendente

Le signore vestite da “cinema indipendente radical chic a budget ridotto”, chiaramente in sala per amore di Greta Gerwig – bravissima regista col dna molto progressivamente aggiornato che tanto ha fatto gridare “al woke! al woke” e poi niente, nulla, neanche una mezza moralina ecotransfluida in Barbie a titillare l’oscurantista per partito preso -, se la ridono. Non si capisce se per il finale animato sul grande schermo da Margot Robbie nella sala d’attesa di una ginecologa, o per i lanzichenecchi in quarta fila: biondine tutte abitini, scarpette e borsette rosa Mattel che strigliano i rispettivi trasferitisi con la bolla al naso su TiK Tok al 45esimo, quando tra Barbieland e Los Angeles sono finite le godibilissime gag a base di piedini arcuati e latte immaginario e hanno iniziato a consumarsi dei dialoghi lunghi così.

Il che farebbe anche onore ai Ken del film – date un oscar, un partito, un cavallo a Ryan Gosling, che ha saputo fare di un insulso Ken Spiaggia un indimenticabile insulso Ken Spiaggia -. Non fosse che Ken è destinato a «vivere solo quando Barbie lo guarda» e che al cinema danno Barbie: “Lei può essere tutto quello che vuole. Lui è solo Ken” (dal claim italiano), “se ami Barbie, questo film è per te. Se odi Barbie, questo film è per te” (dalla campagna di lancio americana). Insomma Barbie “fine pena editoriale mai”, mica Barbie Mariposa che al massimo stuzzicava l’ira delle dietiste.

«Perché c’è un Ken cinese?»

«Perché c’è un Ken cinese?». In sala ci sono troppe bambine, troppo piccole e ignare dei dogmi dell’inclusività predicati da Mattel in negozio e perculati dalla Gerwing stessa nel film. Per chi avesse vissuto a Kabul negli ultimi mesi: Barbie Stereotipo (Margot Robbie, altrimenti detta la prova che Barbie esiste) vive un mondo total pink tutto dreamhouse, glitter e scivoli (sì, amici designer, sappiamo che non un solo ammennicolo è stato lasciato al caso) e popolato da Barbie Nobel, Barbie Presidente, Barbie Giudice della Corte Suprema, Barbie scrittrici, astronaute, disabili, Barbie di ogni taglia ed etnia, insieme ai loro toy boy (letteralmente) Ken, insulsi arredi ma visivamente cool e super inclusivi.

Le Barbie sono convinte così di aver ispirato le donne e reso il mondo migliore, ma quando Barbie Stereotipo inizia ad avere piedi piatti e pensieri di morte (gli stessi della bambina che nel mondo reale sta giocando con lei, le spiega Barbie Stramba, ovvero la Barbie sforbiciata, pasticciata, deturpata che tutte abbiamo avuto) e si avventura per Los Angeles (seguita da Ken Spiaggia, per cercare questa bambina depressa), scopre che qualcosa è andato storto. Che con il politicamente corretto non si combatte il sessismo, il patriarcato, che le femmine non comandano nemmeno alla Mattel, dove lavorano solo uomini e che le bambine in gamba smettono di giocare con le Barbie a cinque anni. E così Barbie-Margot Robbie dovrà rimettere i giochi a posto (soprattutto il gregario Ken, che ha guidato il colpo di stato a Barbieland introducendo il patriarcato). Non al posto di prima, ma ciascuno al posto suo. E come ci riesce?

Si ride con le caricature woke e del femminismo

Si ride eh, quando la gigantesca Margot Robbie cade sulla terra con l’iconico costume del ’59 come un monolite di Kubrick e le figlie dei pionieri prendono a mazzate i loro bambolotti, quando tra il tacco alto che le consentirà di continuare con la vita di prima e un orrido sandalo Birkenstock che le mostrerà “la verità” sceglie il tacco (ciao sorelle Wachowski). Quando compaiono tutte le Barbie e i Ken-flop della Mattel nel ruolo di loro stessi, quando Ken indossa la felpa “I’m Kenough”, quando Barbie fa un monologo sulla bruttezza e la voce narrante emette una “nota per i filmakers: Margot Robbie non è l’attrice adatta a far passare il concetto”, quando si siede in attesa che «una Barbie con il senso della leadership» faccia qualcosa.

Quando Ken trasforma la dreamhouse in una “villa casa mojo dojo” e quando scopre che il patriarcato non ha a che fare con i cavalli, quando l’intero board della Mattel ragiona come una bionda stereotipata, quando compare Barbie depressa che spia le amiche su Instagram. Quando cioè tutto è citazione, caricatura dei tic della società di oggi e di allora e le bambine ignare si godono coreografie, canti e balletti a base di pupazzosissimi dettagli.

Dal party politicamente scorretto all’immancabile pistolotto

Cos’è che va storto allora in questo divertentissimo party di dettagli ottimamente bilanciati, attori bravissimi e scenografie gioia per gli occhi? Ma come in tutti i party: l’arrivo di due “grandi” guastafeste: Gloria (America Ferrera, nei panni della bambina cercata da Barbie Stereotipo e ora madre e donna più invisibile di Allan, l’amico di Ken) e la defunta Ruth Handler (Rhea Perlman nei panni della moglie del fondatore di Mattel che per amore di sua figlia Barbara si inventò, nel 1959, la prima bambola alta, bionda, in costume da bagno, tacchi e tette, in una parola Barbie).

Perché è a loro, portatrici sane di valori veri che Greta Gerwig consegna la chiave di volta – e la morale – del film attraverso il colpo di scena più caro a Hollywood: il pistolotto. Pistolotto sul valore della normalità e l’ordinarietà come ribellione alle aspettative è quello che consegna a Ferrera («Meryl Streep mi ha detto che questo è il monologo che ha aspettato per tutta la sua carriera. Ma io l’ho scritto per te», tanto per stare in tema), pistolotto sulla scelta di restare eterna come un’idea o limitata come una donna quello che consegna alla creatrice di Barbie. «È letteralmente impossibile essere una donna», inizia così il monologo di Gloria che risveglierà le Barbie dall’ipnosi patriarcale e matriarcale (ma pure i Ken, e sua figlia adolescente e i personaggi fuori produzione di Mattel). «Dobbiamo essere sempre straordinarie (…) Sono così stanca di vedere me stessa e ogni altra donna che si distrugge per piacere alla gente».

Viva la normalità, ma che è la Ferragni a Sanremo?

La morale sconclusionata e scontata del film è che siamo tutte “solo Barbie” e tutti “solo Ken”. «Guarda, ha i sandali come i tuoi», esclama una Mamma Braccia Tonificate a una Figlia Gelato Sbrodolato alla fine del film, «Carino, dai, pensavo peggio», dicono le Donne Cinema indipendente in coda per l’uscita, «Troppo cute» squittiscono le Ragazze TikTok in una nuvola di bracciali e unghie rosa mentre i Ragazzi TikTok le seguono scimmiottando Ken, «che cool, gran bel cool». La morale spiegata e straspiegata e rispiegata di Barbie è che in quell’essere “solo” – declamava commosso l’Hollywood reporter – «si nasconde il bene più prezioso: amarsi nella propria normalità. Essere speciali, non dovendo sforzarsi di esserlo. Voler soltanto “indossare un bel top e sentirmi a mio agio a fine giornata” (citazione di Gloria che scatena gli applausi e lancerà Barbie Ordinaria, ndr)».

“Non vi ricordava il monologo di Chiara Ferragni a Sanremo?”, vorresti chiedere guadagnando l’uscita. Poi pensi a come veniva guardata Barbie Stramba e forse preferisci spiegare la cosa della vagina a quella dodicenne che non ha capito il finale.

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