Ambiente, migranti, Ucraina. Il moralismo immorale dell’Europa

Chiedetevi qual è il vero prezzo delle scelte Ue sulle auto elettriche, sulla difesa dei confini, sulla guerra. Finché rinunceremo a un’etica autentica per l’etichetta, non abbiamo futuro

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante una conferenza stampa sul Green Deal nel febbraio scorso (foto Ansa)

Siamo proprio sicuri che l’Europa oggi continui ad essere un faro di civiltà e di tutela del diritto per tutto il mondo? Davvero, ad esempio, l’ambientalismo spinto dell’Unione Europea è un atto morale? Le scelte politiche in materia di immigrazione e sicurezza sono realmente ispirate al principio universale del bene comune?

L’Unione Europea sta rincorrendo un ambientalismo che si accontenta degli effetti sul proprio territorio ma se ne infischia delle conseguenze che genera altrove. Un esempio lampante riguarda la spinta, oramai “istituzionalizzata” a pensiero unico, verso la costruzione e la diffusione delle auto elettriche. Esse certamente salvaguardano i nostri paesi europei dalle emissioni climalteranti (CO2) e inquinanti (polveri sottili, ossidi di azoto, eccetera), riducono la nostra dipendenza energetica dai combustibili fossili, vanno nella direzione della transizione energetica e di una economia green. Tutte cose buone e giuste. Ma a che prezzo?

Gli schiavi del cobalto

Non si tratta solo delle conseguenze economiche e sociali in Europa, già più volte denunciate anche da queste pagine, come la perdita di posti di lavoro, aziende, tecnologie e primati industriali. Si tratta proprio di questioni ambientali e morali. Se da un lato, infatti, queste scelte possono essere giudicate virtuose, dall’altro in realtà contengono un inganno: ne ignorano le conseguenze globali. Non tengono conto, ad esempio, che, per costruire le batterie, occorrono terre rare e minerali disponibili solo in alcuni paesi che non sono esattamente la culla dei diritti umani e della tutela ambientale.

Un esempio chiarissimo è rappresentato dal cobalto, le cui riserve, per i due terzi, si trovano nella Repubblica Democratica del Congo, uno dei paesi più poveri e politicamente instabili della terra, dove per lo più sono i bambini a lavorare nelle miniere in condizioni disumane per pochi centesimi al giorno. Secondo l’Unicef sono oltre 40 mila gli infanti inferiori ai 7 anni che si calano nelle gallerie e scavano a mani nude per portare in superficie quantità sempre maggiori di cobalto. Per una batteria di un’auto elettrica ne servono una decina di chili, che sul mercato occidentale costano 300-350 euro, ma sono il frutto di due giornate di lavoro pagate tra i 3 e 5 dollari. Ai piccoli si aggiunge un esercito di sfruttati adulti, circa 160 mila uomini e donne, ma anche ragazze che si occupano di selezionare, scartare e lavare il materiale estratto, esposte a ogni sorta di abusi.

Possiamo dunque dire davvero che sia non dico virtuoso, ma anche solo eticamente tollerabile per la civilissima Europa il prezzo pagato in altre parti del mondo per il nostro ambientalismo moralista?

Il cimitero dei migranti

Con la medesima dinamica, sfruttando un moralismo immorale, viene trattato il tema dei migranti. Per limitarne l’arrivo sulle nostre coste e quindi poi in Europa, con la giustificazione certamente condivisibile di tutelare la sicurezza delle nostre città e di garantire una integrazione reale agli immigrati, vengono stipulati accordi, ieri con la Libia oggi con la Tunisia, che fanno finta di non vedere cosa succede ai migranti in quei paesi, in centri di detenzione che somigliano a veri e propri lager, dove non esistono diritti umani e i migranti subiscono ogni sorta di abusi. Va tutto bene, purché i migranti non arrivino sulle nostre coste e non si vedano qui. Quel che succede altrove non ci riguarda!

È drammatico pensare che le decisioni dell’Unione Europea non tengano conto del fatto che la maggior parte di coloro che partono per arrivare da noi sono già morti nel più grande cimitero dei migranti, che, come ha ricordato papa Francesco, non è il Mediterraneo, ma il deserto sahariano. Le statistiche delle organizzazioni internazionali parlano di una media di morti pari o addirittura superiore al 50 per cento.

Dunque, è morale ignorare questa immane tragedia? Lo è far finta di non vedere che queste persone, questi esseri umani, quando riescono a superare i 50° del deserto, dopo giorni o mesi di cammino, vengono stipati nei centri di detenzione in condizioni a dir poco disumane, affinché non partano con i barconi verso le nostre frontiere?

Armi invece di iniziative di pace

Se ci pensiamo bene, anche la vicenda della guerra in Ucraina è intrisa di questo moralismo. Certo, qui ci sono indubbie ragioni di equilibrio internazionale e di prudenza per evitare il dilagare di un conflitto globale. Ma è davvero morale riempire l’Ucraina di armi e poi lasciare che siano solo i suoi figli a sacrificarsi al fronte in decine di migliaia, insieme a giovani russi altrettanto innocenti? Quale vera iniziativa di pace ha assunto finora l’Unione Europea? Non è troppo comodo limitarsi a sacrificare qualche carro armato o aereo o cannone per difendere i confini dell’Europa dall’aggressione russa, lasciando che siano i soli ucraini a fare il “lavoro sporco”, che significa il compito di combattere e morire al fronte?

Perché dunque così tanto moralismo immorale, certo ben vestito di valide argomentazioni e difeso con altrettanti richiami agli equilibri internazionali e al bene comune? Questa concezione è figlia di un pensiero debole, perché povero di ragioni secondo la totalità dei fattori in gioco e fragile nei valori che dovrebbero fondarlo. Un pensiero morale nel senso pieno e letterale della parola, ovvero capace di generare comportamenti orientati al bene, ha bisogno di un solido fondamento. L’etica senza radici profonde in una base di valori solidi e in una antropologia condivisa diventa solo una “etichetta”. Come quella dei nostri vertici internazionali, sempre cortesi e cerimoniosi, senza un dettaglio fuori posto, perfetti nell’etichetta ma troppo spesso indifferenti all’utilità pratica dei propri esiti.

Le fondamenta della civiltà

È questo che condannerà l’Europa all’irrilevanza nel futuro! Cosa ha di significativo da dare l’Europa al futuro del mondo? L’Unione Europea economicamente sarà surclassata dalla Cina, dall’India e da altri paesi emergenti; tecnologicamente da tempo ha perso il primato della ricerca e dell’innovazione; militarmente è già evidente la sua debolezza, se non sostanziale inconsistenza, con l’assenza di un esercito comune e di strategie di comando condivise, come mostra anche la guerra in Ucraina.

L’unica salvezza per l’Europa sarà quella di abbandonare questo moralismo d’accatto per far riemergere una concezione autentica dell’uomo e della società che ha nelle radici cristiane il suo Dna più vero. Questa è la vera posta in gioco intorno al tema delle radici cristiane dell’Europa: riconoscere o misconoscere cosa c’è al fondamento di quella civiltà di cui per secoli, pur tra mille contraddizioni, siamo stati il faro per tutto il mondo! Quell’Europa che ha saputo mostrare al mondo il valore sacro e inviolabile di ogni persona umana, perché costituita “a immagine e somiglianza dell’unico Dio”, da cui sono state generate le politiche di welfare pubblico, la sanità gratuita per tutti, la previdenza sociale, la capacità di assistenza dei più deboli, il principio di sussidiarietà, la tutela della libertà e dello spirito imprenditoriale, persino l’idea che fosse possibile una amicizia fra i popoli per una pace globale.

Accontentarsi di questo moralismo vuole dire perdere la radice della propria forza e della propria eredità secolare. Soprattutto vuol dire scegliere di diventare insignificanti nel futuro del mondo.

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