
Anguille, giraffe, topolini
C’è veramente qualcosa di struggente nel congresso di Pesaro di ciò che fu il Pci. Struggente specie per chi come me conobbe i comunisti nella sua infanzia, nella guerra, e per tutto il periodo della prima Repubblica. Ho combattuto i comunisti di Scalfaro perchè essi erano diventati quello che non erano mai stati durante il periodo del Pci nella prima Repubblica: un pericolo per la democrazia. I comunisti che conobbi nella Resistenza erano rivoluzionari, la loro morale era rivoluzionaria, con le fermezze e le durezze ben note, anche se sempre condita da una buona logica politica. Ma infine solo la guerra dei due blocchi avrebbe portato i comunisti ad attaccare la democrazia. Negli anni della prima repubblica il Pci diviene un’altra cosa: un mostro strano di totalitarismo ideologico e di compromesso pratico, “la giraffa”, come lo definì Togliatti. Un partito curioso anche degli altri ed in particolare curioso dei cattolici, a cominciare dall’interesse per la grande capacità di motivazione democratica e popolare dell’Azione cattolica di Luigi Gedda il 18 aprile del ‘48. E curioso del fascismo, di cui cercò di recuperare l’intelligenza politica, la capacità di linguaggio popolare, il modo di mantenere la fusione politica e le differenze culturali e sociali. Il convegno di Pesaro mi è sembrato un nascosto “rompete le righe”. Vi è qualcosa di irrimediabilmente comico in questa infinita ricerca dei comunisti di divenire una cosa che non c’è più, la socialdemocrazia europea come cultura politica: il loro appassionante bisogno di creare una ideologia, qualunque contenuto porti purché abbia la capacità di fare del partito un corpo politico e non un assemblaggio di cittadini. Assemblaggio di cittadini: questa è la nuova forma della politica. E la politica in cui muore l’illuminismo è l’idea che l’azione pratica debba essere giustificata da una ragione universale. Quante drammaticità e comicità insieme nel cercare nel “topolino” di Craxi, come Forattini aveva efficacemente dipinto Giuliano Amato, la chiave di una entità “ideologica”; in Amato, uomo di tutti i regimi e di tutte le stagioni, tecnico delle istituzioni mitizzato dai comunisti in chiave politica della socialdemocrazia. Quanto moralmente meglio il fedele apparatchik Fassino dell’anguillesco Amato! Presi singolarmente, i comunisti sono gradibili quasi tutti, persino D’Alema. Vi è in loro l’autunno di una civiltà politica terribile perché totale ma fascinosa del suo stesso tragico che sprizza malinconia. E che cosa dice la figura di Fassino se non la sua autentica capacità di esprimere malinconia, di esprimere cioè nella sua persona lo spegnersi di una storia che, con quella fascista, ha costruito quasi tutto della politica italiana del Novecento? I democristiani non sono mai stati capaci di suscitare sentimenti profondi. Perchè cattolici essi non riescono ad avere della politica un senso tragico. Colpisce nelle lettere di Moro dal carcere Br la convinzione che vi era una via per evitare la tragedia. Ma Zaccagini era troppo misero, Andreotti troppo cinico e Berlinguer troppo un grande comunista perché Moro non dovesse morire. E come poteva morire Berlinguer se non tragicamente parlando al suo popolo? Non considero Pesaro un evento politico, in realtà non lo è: e tutti lo sanno. Tra poco, amici di Tempi vedrete i topi lasciare la nave e vedrete il riempirsi lieto delle file della maggioranza con chi pareva un antiberlusconiano incallito.
Gianni Baget Bozzo
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!