Arafat e Barak, stessa sconfitta

Di Gian Micalessin
12 Ottobre 2000
Potevano essere i leader della pace, invece hanno perso le occasioni che avevano e oggi per sopravvivere vanno a rimorchio degli estremisti: Barak e Arafat faranno quello che Sharon e i coloni, Hamas e la nuova Intifada lasceranno loro fare

La guerra dei deboli, o, come annuncia Shimon Peres, “la guerra che nessuno vincerà”. Sarà questo il nuovo conflitto israeliano-palestinese. Una guerra innescata dalla debolezza di Arafat e Barak, voluta dalle fazioni più estremiste del movimento palestinese e dello stato ebraico. A Gerusalemme Ehud Barak è pronto a tutto pur di restare in sella. E il tutto si chiama guerra. Questo ex-generale salito al potere con i voti di chi voleva portare il negoziato di pace a compimento sta guidando il paese verso il conflitto aperto. Un conflitto utilizzato come strumento politico per riunificare e ricompattare il paese. La destra e i coloni non sono sicuramente le forze dominanti, ma sono le più attive. Sono loro, nei discorsi e nelle invettive, a chiedere la guerra come ultima barriera alla creazione di uno stato palestinese. Il resto d’Israele guarda attonito. L’orgoglio dello stato laico d’Israele non esiste più. Esistono da una parte un acquisito benessere che genera indifferenza e dall‚altra parte la voce roboante delle minoranze: i fondamentalisti del partito Shas, i falchi del Likud di Ariel Sharon, i coloni timorosi di perdere terre e privilegi. Barak si sta piegando non alla maggioranza del paese, ma alla parte più determinata e rumorosa. Una parte che vuole cambiare il volto dello stato secolare ebraico per confonderlo sempre di più con il simbolismo religioso. E non a caso questa guerra è stata innescata dai simboli. I simboli del muro del pianto e della moschea di Al-Aqsa inevitabilmente legati dalla collina che, nel cuore di Gerusalemme, li plasma e li unisce. Barak ha avuto coraggio, ma non ha avuto capacità. È arrivato a metà settembre perfino a immaginare la creazione di due Gerusalemme, una per gli ebrei e una per i musulmani. Ma non ha saputo trasmettere il messaggio al suo popolo. La sua voce è stata appannata dalla passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee. Alla violenza dei palestinesi ha saputo rispondere soltanto con un’escalation di violenza. Ora a Barak restano poche possibilità. Una si chiama guerra e passa attraverso l’accettazione di un governo di unità nazionale con Ariel Sharon, il suo peggior avversario di ieri. Dietro non avrà più tutto il popolo ebraico ma soltanto gli ebrei ortodossi, i coloni, i falchi del grande Israele. Questa piccola alleanza dovrà fare i conti con il ritorno dell’ostilità dei paesi arabi e con la rabbia crescente, all’interno dei propri stessi confini, di oltre un milione di arabi israeliani. Un milione di arabi che oggi rappresenta il venti per cento della popolazione. Tra un decennio potrebbero diventare il quaranta o il cinquanta per cento. Ma Barak non è il solo debole. Dall’altra parte c’è un Arafat che ha perso il contatto con il proprio popolo e la propria gente. Un’Autorità Palestinese che non ha saputo, in sette anni di apparente pace, creare alcuna prospettiva. I bambini mandati a morire sulle barricate, a tirar sassi e molotov, sono i figli di un popolo senza prospettive e senza speranze. Un popolo disgustato dalla corruzione e dal nepotismo. Un popolo propenso ormai, anche lui, a credere alle promesse del fanatismo religioso, alle organizzazioni di solidarietà islamica gestite da Hamas, alla violenza di Tanzim, l’organizzazione dei militanti della “nuova intifada” che nella nuova guerra vede la via più breve per mettere da parte Arafat. E alla fine anche Arafat dovrà lasciarsi trascinare nel conflitto per non perdere l’ultimo rispetto del suo popolo. Lui e Barak precipiteranno assieme, bruciati dalla propria incapacità. Abbracciati nel cinismo che li spinge a sperare di risorgere dalle ceneri di uno scontro crudele quanto inutile.

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