
Arsenico e vecchie manine (poolite)
Forse qualcuno, fra qualche anno, vorrà capire meglio la complessa storia della “stagione tangentopoli”, quelle drammatiche vicende giudiziarie che hanno portato, tra le altre cose, a cancellare dalla scena i principali protagonisti politici della Prima Repubblica e gli stessi cinque grandi partiti storici italiani. Qualcuno si porrà la domanda su come si sia potuta diffondere una patologia della giustizia fatta di processi sommari, linciaggi a mezzo stampa e condanne giunte prima che si svolgesse un regolare dibattito, per semplice “presunzione di colpevolezza”.
Eccessi ed errori non casuali, ma che portano alla luce l’esistenza di un sistema ben preciso, un metodo messo a punto nel tentativo di arrivare al “Palazzo d’Inverno” per via giudiziaria. E che ha umiliato e stritolato tante persone, grazie anche ad una perversa simbiosi tra magistratura e stampa. Basti pensare a Cesare Previti, presentato come una sorta di simbolo stesso del Male, o anche a Francesco De Lorenzo, che la stampa accusò perfino di reati mai contestati – perché spesso ci sono stati addirittura dei supplementi di accuse da parte dei media. Fino a spingere al suicidio: come accadde per Sergio Caneschi e Gabriele Cagliari.
Ma le vittime non sono state solo i politici, i personaggi di forte visibilità. Anche tra le persone comuni, sono stati tanti i poveracci a finire in una cella – “presunti colpevoli” – per la cultura del “carcere sempre e comunque” che ha dominato la magistratura d’assalto. È recente il caso di Sharifa, finita in galera a Milano per sei mesi, allontanata dai suoi figli e infangata da un’accusa bestiale, oltre che gratuita. E la stessa mentalità ha portato ad un uso smodato dei pentiti, con l’effetto di abbassare fortemente la qualità investigativa, la serietà delle indagini. Per questo, tante volte, si è arrestata la gente senza riscontri. Bastava un cognome “sbagliato”, ovvero omonimo di un qualche “delinquente”, per essere a rischio. Non tragiche coincidenze, quindi, ma la mancanza di indagini serie. Fino ad arrivare al surreale, ad una realtà che rende del tutto banali i racconti allucinati di Kafka: come nella vicenda di quella persona che, siccome si chiamava Camillo ed era stato intercettato un dialogo in cui si affermava che un delinquente col suo nome aveva una partita di droga, è stata arrestata perché, appunto, si chiamava Camillo. Il clima richiama alla mente i grandi processi di Mosca negli anni ’30.
Infatti questa cultura fosca, tetra, carceraria è nata da un ben preciso retroterra ideologico, il più consono all’assenza di umanità. Perché, al di là del problema innocenza/colpevolezza, quello che è mancato è stato proprio il senso di umanità, di rispetto per la persona, in una logica da rivoluzione. Ma mentre i rivoluzionari perlomeno rischiano del loro, si assumono le proprie responsabilità e possono quindi finire in carcere o morire, stavolta ci troviamo dinanzi al caso singolare di una rivoluzione fatta al coperto, addirittura al riparo dello Stato. E che non è ancora finita, perché da sempre in questo paese non finisce mai nulla. Neppure il comunismo, di cui è mancata infatti una qualsiasi analisi seria, coraggiosa, l’unica che poteva rendere possibile una vera svolta. Invece gli echi di quella cultura si avvertono sempre: a scuola, all’università, nei media. Non sorprende allora il ritorno delle Br.
Lo stesso vale per la situazione della giustizia: sarà difficile arrivare ad una cura dei mali che ancora l’affliggono. Nonostante gli ultimi richiami di Carlo Azeglio Ciampi al “giusto processo”. Perché se le parole possono essere apprezzabili, chi volesse una riforma vera della giustizia dovrebbe innanzitutto avere il coraggio di ridimensionare il Csm, che è stato il parlamentino della rivoluzione e della fine delle garanzie in Italia, mentre – secondo Costituzione – dovrebbe essere semplicemente un organo amministrativo.
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