
Arte viva
La prima in cui letteralmente si inciampa, perché bisogna calpestarla per proseguire, è un’installazione di migliaia di rotonde teste di metallo, messe a terra con la bocca spalancata; il progetto è di Menashe Kadishman (Tel Aviv, 1932) e si concentra sulla storia del sacrificio di Isacco. L’opera si chiama Shalechet (Falling Leaves) e nasce in relazione alla discussa guerra in Libano del 1982, quando il figlio dell’artista venne chiamato alle armi. I timori di Kadishman si uniscono al generale senso di ansia che affligge Israele e la figura biblica del patriarca Abramo, costretto a sacrificare il giovane figlio, diventa la coscienza di un popolo. Anche in Living Sheep, grande tela dipinta a olio, e già presentata alla Biennale di Venezia del 1983, torna il motivo della pecora mandata al macello, un’icona profondamente radicata nel mito di Israele.
La mostra “Israele Arte e vita 1906- 2006” in corso a Palazzo Reale di Milano fino al 7 gennaio 2007 suscita riflessioni e domande e attraverso 150 opere, provenienti da collezioni pubbliche e private, apre uno spiraglio sul mondo ebraico contemporaneo di cui tanti parlano, ma che pochi conoscono. Ad esempio Michal Rovner, affermata artista digitale nata a Tel Aviv nel 1957, che vive e lavora a New York, mette a tema il rapporto tra memoria e confine creando una poetica video installazione con una pietra dell’antica Roma, su cui proietta una sorta di labirinto fatto da tanti minuscoli esseri umani. Di recente ha affermato: «Non mi interessa la memoria che ha a che fare con l’atto di ricordare, ma quella che nasce da ciò che è rimasto. che ha a che fare non con qualcosa che è successo, ma con il segno che questo ha lasciato».
Il fotografo Adi Nes, classe 1966, attinge invece al mito del guerriero nella società israeliana e sfida l’immagine militaresca del Sabra, il valoroso soldato nato in Israele, ridefinendolo in chiave glamour o forse gay. In un ciclo di recenti lavori, in cui l’artista rivisita i capolavori della pittura europea del Rinascimento, una foto è ispirata alla Pietà di Michelangelo. Qui la figura di Maria che sostiene il corpo di Gesù è sostituita da quella di un soldato dell’esercito israeliano ferito al costato e sorretto da un compagno, ma Adi Nes aggiunge un improbabile set per il trucco, sottolineando in tal modo la vulnerabile bellezza del rude soldato, abituato a reprimere le emozioni, e invitando dall’altro lato a riflettere sulla superficialità del livello estetico in cui si può giocare un’esistenza.
«L’idea della mostra “Israele Arte e vita 1906-2006” nasce dalla consapevolezza che qualsiasi forma d’arte diventa significativa quando intercetta lo spirito del tempo, del luogo e della società in cui si è sviluppata», spiega il curatore Amnon Barzel. Ma non solo. Prendendo le mosse a partire dal 1906, ovvero da quando fu fondata l’Accademia Bezalel di Gerusalemme, sotto l’Impero ottomano (a seguito di un provvedimento del Congresso sionista di Basilea mirato alla fondazione di istituzioni culturali, scuole e accademie come primo passo nel processo di costruzione dello Stato ebraico), la mostra testimonia l’anima di un popolo e la creatività di una nazione, nata prima del suo Stato. Nel 1906 infatti, quarantadue anni prima della nascita politica di Israele, il movimento sionista indicava le strutture portanti dello Stato nella scuola e nelle espressioni artistiche e fondava, accanto all’Accademia di Arti e Mestieri, anche l’Università, il Teatro Nazionale e l’Orchestra Sinfonica. Come dire che una nazione resta unita e viva se educa il cuore della sua gente, che è fatto per l’infinito, e sa nutrirne lo spirito con l’arte, la filosofia, la religione.
Politica, identità e integrazione
È dunque una piacevole sorpresa, di questi tempi, uscire da una mostra di arte contemporanea con il cuore allietato dalla speranza. Anzi con il sorriso sulle labbra e la testa che corre con il respiro da un’opera all’altra, da un rimando all’altro e così facendo cresce, capisce, si eleva e si nutre: in poche parole, si fa esperienza di qualcosa degno dell’essere umano. La mostra racconta la felicità di esistere, pur nel dramma delle umane vicende, ed è la più ampia rassegna di arte israeliana moderna e contemporanea realizzata in Italia da Amnon Barzel, direttore e fondatore del Jewish Museum di Berlino (1994-1998) e del Museo Pecci di Prato (1986-1993), e ancor prima, nel 1976 e nel 1980, del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia. Il percorso è emozionante e inizia a ritroso, con le opere di una decina di artisti israeliani protagonisti del XXI secolo, per poi risalire, attraverso cento anni, fino al 1906, quando Boris Schatz tentò di creare uno stile nazionale e una nuova cultura ebraico-europea nel mito romantico-idealista di un’Arcadia biblica, che costituiva l’antitesi alla realtà del ghetto e degli shtetl, i villaggi ebraici dell’Europa orientale.
La mostra riflette gli eventi politici, sociali e culturali del paese e documenta la ricerca di un’identità e di un’integrazione fra la cultura occidentale e quella orientale, nel contesto nella nuova Terra d’Israele. Ma soprattutto è la prova che l’arte contemporanea può ancora portare un messaggio vitale, vicino ai desideri della gente comune, quando l’artista è la voce del suo popolo. Come fa la bella Sigalit Landau, classe 1969, con lo straordinario video Dead Sea del 2005. Una spirale composta da 500 angurie, collegate fra loro da 250 metri di corda invisibile, galleggia in cerchio come un’enorme zattera sulla superficie del Mar Morto. L’artista stessa è inserita in questa spirale e galleggia nuda, reggendo in mano un’anguria tagliata, esposta, nella sua dolcezza, come una ferita aperta nel sale. Una mano invisibile trascina il capo estremo della spirale, che scompare lentamente dallo schermo con un movimento circolare. L’opera evidenzia una contraddizione: non esiste forma di vita in quelle acque. E le angurie muovendosi sono destinate a scomparire. Si tratta di una favola o della terribile metafora dell’esistenza di Israele nell’area ostile che lo circonda?
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