Aspettando Sarkozoni

Di Oscar Giannino
26 Luglio 2007
Stretto tra gli aspiranti leader del Pd e la sinistra radicale Prodi si ricicla continuamente mettendo tutti contro tutti, convinto che il tempo giochi a suo favore. Intanto l'Italia si allontana dal sogno riformista francese. Per quanto?

Altro che Nicolas Sarkozy, il conservatore-rivoluzionario che nei primi dieci giorni di Eliseo ha cambiato la Francia con una batteria di riforme mozzafiato. Defiscalizzazione delle ore di straordinario (praticamente la fine delle 35 ore). Soppressione dei diritti di successione per i piccoli e medi patrimoni. Deduzione degli interessi sul reddito imponibile sull’acquisto di case. Fusione dei due organismi di collocamento per i disoccupati. Divieto per questi ultimi di rifiutare più di due offerte di lavoro senza giustificazione. Obbligo di seguire un corso di formazione o la ricerca attiva di un lavoro per ottenere gli assegni di disoccupazione. E ci fermiamo qui. L’Italia, invece, procede paurosamente all’indietro, a colpi di maglio che aprono squarci nelle già dissestatissime casse pubbliche, minando la legge Biagi, abbassando l’età della pensione, togliendo le risorse sotto i piedi delle nuove generazioni, sacrificando gli investimenti in settori strategici quali l’edu-cazione e l’innovazione. Insomma, Italia fuori (o poco ci manca) dal cammino del resto d’Europa. Mentre il testa dura di Reggio Emilia sembra reggere impavido l’urto della realtà. Cadrà, Romano Prodi, all’improvviso, di schianto, travolgendo con la sua caduta personale anche i primi boccioli del Partito democratico? Chissà. Ma se la sinistra radicale non è il partito del Muro di Berlino e Prodi non è Honecker, cifra e simbolo di un feroce partito-Stato, certo ha un che di surreale la tenuta di un governo che appare ogni giorno di più fuori dal mondo. Chi ha due volte guidato l’Iri in mari più che tempestosi, chi è sopravvissuto a un ribaltone di nome Silvio Berlusconi e ciò malgrado è riuscito nuovamente a sconfiggerlo, ha al suo arco più vite del proverbiale gatto nero di cui spesso si parla del tutto a vanvera, visto che il gatto, qualunque sia il colore del suo manto, alla fine se colpito di brutto crepa e bisogna farsene una ragione.

Ballando sul filo al Senato
Mettiamola così, allora. Il premier è convinto di aver soggiogato tutto ciò che di maggiormente pericoloso si annidava nell’agenda divisa del centrosinistra a una data essenziale, quel 14 ottobre che segnerà l’avvento di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Il leader indicato a tavolino ha dovuto dire di essere a favore del referendum sulla legge elettorale, ma che non avrebbe firmato per quello stesso referendum. Ha speso parole a favore dei giovani poco rappresentati dal sindacato, ma non ha potuto sfilarsi di un millimetro dall’intesa sottoscritta a Palazzo Chigi che ha diluito lo scalone Maroni, né ha potuto dire una sola parola sul fatto che i maggiori costi relativi a questo abbassamento dell’età pensionabile risultano fortissimamente sottostimati e praticamente a carico di co.co.pro e parasubordinati, con ulteriore clausola di garanzia nel caso di mancata realizzazione della fusione tra i diversi enti previdenziali, visto che in tale evenienza si alzerebbero ulteriormente i contributi per gli autonomi. Se Prodi ha ragione, se cioè Veltroni si asside sulla poltrona del Pd senza realizzare alcuno strappo visibile alla tela del governo, allora la convinzione di Prodi forse è ben fondata. In altre parole, il premier può ritenere che ad onta della maggioranza sul filo perenne dell’evaporazione in Senato il suo governo può durare persino ancora almeno un biennio, semplicemente per il fatto che a quel punto a Veltroni leader di un Pd iperallineato non può riuscire la manovra di un impegno a favore di una riforma elettorale antireferendum tale da superare la formula-Prodi con un sia pur minimo accordo bipartisan. Oppure, nel caso di un’inopinata fine immediata della legislatura a seguito della dissociazione di Clemente Mastella per sopraggiunto referendum, Prodi può pensare che gli tocchi ancora guidare la coalizione alle urne, per affrontare l’eterno avversario Berlusconi.

Il logoramento
La seconda ipotesi è quella che prevede per Veltroni un insediamento assai meno liscio alla guida del Pd. Diciamo che, al fine di assicurare a Prodi una leadership ancora ragionevolmente al sicuro dallo scorrere inesorabile del tempo, la candidatura di Rosy Bindi ha portato acqua ben vista al mulino: la sua candidatura serve esattamente a evitare che vi sia una parte di base del Pd radicalmente favorevole a non perdere il contatto con la sinistra e contemporaneamente non pronta a mischiarvisi troppo, pronta a convergere su Veltroni come leader disposto non certo a giustiziare Prodi, ma a superarlo sì, in nome del futuro promesso a se stesso, secondo ogni ragionevole aspettativa. La Bindi candidata e i voti che raccoglierà dicono: «Prodi resta e non si tocca, per tutto il tempo necessario». Ma con questa tesi non è del tutto allineata la salutare discesa in campo di Enrico Letta. La sua candidatura non è piaciuta a Franco Marini, che mira all’intesa postprodiana per la riforma elettorale, prima di un voto che non si terrà prima del 2009 (nel più anticipato dei casi). Ma non piace neanche all’ala iperulivista, perché inevitabilmente Letta mette in campo spezzoni di elettorato deluso del centrosinistra, ambienti industriali e bancari, cultura del fare e radice nordista delusa dai troppi no alle opere pubbliche e dal troppo spazio assicurato alla sinistra radicale e all’antagonismo sindacale. Quanti più consensi andranno a Enrico Letta oltre la soglia del 7-8 per cento nelle primarie, tanto più per il governo Prodi significherà dover fare i conti con una pressione verso un orizzonte diverso dal sempre eguale, e dalla rassegnazione furbesca con cui i prodiani hanno sempre gestito, nel 1998 sulle 35 ore come oggi su qualunque capitolo, l’accordo con la sinistra radicale sulla testa di quella riformista. Un esito delle primarie “a forbice”, per Prodi, è paradossalmente ormai assai più rischioso di un esito trionfale per il solo Veltroni, candidato a tavolino e non in grado di mobilitare davvero entusiasmi alternativi all’attuale quadro del consenso nei confronti del governo, consensi che nei sondaggi, da mesi a questa parte, calano inesorabilmente.
In questo secondo scenario – quello per il quale il governo ha rinviato tutte le trappole alla Finanziaria e alla maratona negoziale che occorrerà per scriverla – non c’è solo la contesa per il Pd, a fare la differenza. Su Rifondazione e sui Comunisti italiani, molti nel centrosinistra pensano che Prodi si faccia ormai illusioni. Fausto Bertinotti e Franco Giordano hanno tirato la corda, accettando di fatto l’accordo raggiunto a Palazzo Chigi sulle pensioni, dopo aver fatto capire a tutti il contrario. La consultazione coi lavoratori che terranno i sindacati vedrà la quasi certa rottura della Fiom con Cisl e Uil: ma a quel punto è illusorio pensare che Pdci e Prc lascino il leader dell’ala intransigente sindacale da solo, a cavalcare il dissenso sociale e l’istanza redistributrice. Per questo molti, anche tra i Ds, pensano ormai che l’ala antagonista miri a una rottura vera e propria, al tavolo della Finanziaria. Nella convinzione che, a quel punto, il governo Prodi abbia dato a sinistra tutto quel che poteva dare, mentre da quel punto in avanti si può solo compromettere la propria immagine “irriducibile” nell’elettorato dell’ultrasinistra, che del Professore è scontento da mesi, e che col tempo resterà inevitabilmente sempre più deluso, viste le sue irrealizzabili aspettative e il suo desiderio di tornare all’opposizione rispetto a qualunque formula riformistica si possa pensare di varare in Italia.

L’unica speranza sono gli antagonisti
Prodi è ancora legittimamente persuaso che sia la secessione riformista sia la tentazione antagonista siano ancora controllabili. La seconda Finanziaria del governo – ragiona il premier – verrà scritta con una messe di risorse da allocare che, no-nostante la stretta fiscal-giustizialista dell’anno scorso, è ancora tanto ingente che né i veltroniani né i lettini né i bertinottiani né i cremaschiani potranno o vorranno fare a meno di attingervi ciascuno una propria fetta
Ma questa scommessa può sfuggire di mano da un momento all’altro. Il referendum elettorale è in campo, e Mastella, al momento buono, non farà sconti. Il centrodestra paradossalmente vede Pierferdinando Casini più debole che forte, dopo le amministrative, e dunque la soluzione di un gabinetto istituzionale (o centrista) per una riforma elettorale referendaria paradossalmente ha perso punti quando più sarebbe invocata da buona parte del Parlamento: nel senso che o si realizza un’intesa almeno in parte davvero bipartisan, ipotesi improbabile visto che per la base di Ds e Margherita resta ancora oggi improponibile un accordo con Berlusconi, oppure l’alternativa è il voto secco, per evitare il referendum, con vaste convergenze di sinistra radicale e antibipolaristi dell’uno e dell’altro schieramento, per difendere almeno la legge elettorale attuale mandando a casa Prodi nella maniera più traumatica e a sorpresa possibile.
Un ottobre di trappole continue, dunque, e un autunno infuocato, è la prospettiva che Prodi ha consapevolmente messo di fronte a sé. Ma attenzione: il fatto che la Commissione europea e le agenzie di rating, i professori dell’ala giavazziana e gli editorialisti del Corriere della Sera, i montezemoliani di ieri e i terzaforzisti di ogni scenario siano tutti tra gli scontenti del governo ma privi di una soluzione a breve, potrebbe ancora una volta giocare a favore dell’ex boiardo di Stato. Che ancora una volta regge il timone del paese esattamente alla stessa maniera in cui è stato per anni alla testa di une delle più bizantine e scassate holding pubbliche della storia italiana, mettendo amministratori delegati e presidenti di ogni controllata gli uni contro gli altri. Se i riformisti lettini non sapranno dire – almeno loro, visto che Veltroni non lo fa e difficilmente lo farà – «ora basta, noi faremo di meglio e di diverso», affinché il tempo non si risolva nella durata prodiana non resta che sperare nella sinistra antagonista. Ma, finora, chiunque abbia nutrito tale speranza è rimasto deluso. E Prodi lo sa.

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