Bancarossa fraudolenta

Di Zottarelli Maurizio
11 Agosto 1999
I giornali ne hanno parlato molto poco. All’inizio venne presentata come “tangentopoli napoletana”, ma le indagini stanno portando a un autentico comitato d’affari cresciuto intorno ai grandi business delle coop rosse. Lo strano caso di un finanziere napoletano che, quasi per caso, potrebbe svelare molti intrighi dei santuari economici della sinistra e portare molto in alto nel gotha della seconda repubblica

Il nome di Renato D’Andria era già conosciuto alle cronache quando il 22 marzo scorso fu arrestato, con altre otto persone, con l’accusa di bancarotta. D’Andria, infatti, è un imprenditore napoletano, noto per le molte e spregiudicate iniziative che lo hanno portato a estendere i suoi molteplici interessi dal mercato immobiliare ai giornali, oltre che a incappare in varie disavventure giudiziarie. Tra l’altro, D’Andria è il proprietario di quello spicchio di Capri che in passato appartenne alla famiglia Rovelli e, prima del suo fallimento era il proprietario del Giornale di Napoli; quanto ai suoi trascorsi giudiziari, era già stato arrestato una prima volta nell’84 in Sardegna, sempre per bancarotta. Quel 22 marzo, però, D’Andria fu arrestato nell’ambito di un’inchiesta napoletana che indagava sul fallimento di alcune imprese. Ben presto – era il 7 luglio – mentre l’imprenditore era ricoverato al Fatebenefratelli di Roma per accertamenti clinici, da Milano arrivò una seconda ordinanza di custodia cautelare firmata dai pm Nocerino, Ielo e Greco – il pool, per intenderci – per il fallimento di numerose altre società alle quali l’imprenditore avrebbe sottratto liquidità per 34 miliardi. Ciò che lega queste ultime imprese alle prime – sta qui la specificità dell’inchiesta – è quello di essere tutte società sorte nella galassia delle cooperative rosse o, perlomeno, nell’area di riferimento di quello che fu il glorioso Pci-Pds. Insomma, quelle che si definiscono società in “quota” a sinistra. I giornali ne hanno parlato solo di sfuggita, ma si tratta di imprese di primo piano, tra le quali le più note e importanti sono la De Bartolomeis Spa Forni e Impianti, il Gruppo Cei (Compagnia Elettrotecnica Internazionale), la Ceitin, il Gruppo Gifi, Finimpianti, la Ctip, l’Elettrogeneral, la Sic.

Gli affari si fanno solo in famiglia Quando D’Andria ne acquisì il controllo all’inizio degli anni ’90 la loro situazione era assai più che compromessa. “Più che altro direi che erano aziende decotte con gravi situazioni di insolvenza per cui, come si dice, si sarebbero dovuti portare i libri in tribunale”, sottolinea l’avvocato Carlo Taormina, difensore di D’Andria. Tuttavia, secondo l’imprenditore la situazione era ancora sanabile. Soprattutto perché si trattava di imprese con grandi portafogli clienti che, se opportunamente gestiti, potevano autorizzare all’ottimismo. Invece nell’arco di pochi anni la situazione precipitò e a partire dal ’94 le società fallirono una dopo l’altra.

“D’Andria cercò per l’appunto di far valere il suo portafoglio clienti e, fatto l’investimento, ereditarne anche il giro d’affari. Ma, a questo punto, trovò un muro di opposizione: gli si fece notare che le sue società non erano più considerate in quota alla sinistra e perciò per determinate commesse non erano più tenute in considerazione”.

“Questa – prosegue Taormina – è l’origine dei fallimenti delle società. Anzi, D’Andria intuì quale fosse stata la gestione precedente di tali società, utilizzate per anni per alimentare i partiti e, a suon di tangenti, svuotate: la gestione, a quel punto necessariamente fallimentare di D’Andria, avrebbe di fatto coperto anche i fatti pregressi costringendo il mio cliente a pagare per tutti”. In effetti, per cercare di tenere in piedi le imprese D’Andria realizzò una serie di operazioni contabili che, in pratica, consistevano nel muovere capitali dall’una all’altra società per creare una liquidità apparente.

“Certamente sono operazioni illegali dal punto di vista penale, ma non si tratta di distrazione di capitali perché D’Andria questi soldi li muoveva all’interno del gruppo, mica se li intascava. E i conti sono lì a testimoniarlo – continua Taormina -. il mio cliente ha certamente le sue colpe e agli inquirenti ha detto di voler spiegare tutto quanto nelle sue possibilità e di voler rispondere per quello che gli compete. Di sicuro, però, non intende pagare per quanto avvenuto prima, fatti per i quali non ha alcuna responsabilità”.

La mappa del tesoro porta a sinistra Così, D’Andria, dopo l’arresto ha cominciato a raccontare ai pm quanto in sua conoscenza sul mondo in cui gravitavano tali imprese. Si parla di un comitato d’affari costituitosi nel ’95 e nel quale egli sarebbe stato ammesso proprio in seguito alle sue acquisizioni societarie. Senza ottenerne nulla per le sue aziende, ma, in compenso, venendo a conoscenza di informazioni relative a giri di soldi, dazioni e mazzette a favore di partiti, alcune delle quali avvenute anche in epoca recente. Naturalmente nomi per ora non se ne fanno, ma D’Andria, al quale giovedì 22 sono stati concessi gli arresti domiciliari, deve aver dato molte spiegazioni se gli inquirenti intendono utilizzare tutto il mese d’agosto per raccogliere riscontri. D’altra parte il filone sembra portare molto in alto. Si dice che i magistrati siano molto interessati a una maxi tangente che riguarderebbe l’Iri dopo la presidenza Prodi e che finirebbe per coinvolgere personaggi di grande rilievo di questi anni ’90. In definitiva, si tratterebbe di un grande comitato d’affari che, in piena tangentopoli si preoccupava di ridistribuire gli appalti di Stato e che andrebbe a toccare esponenti di primo piano e alcuni santuari della sinistra. D’Andria, entrato in questo comitato d’affari quasi come un intruso, sarebbe stato rapidamente emarginato. Salvo poi, a sorpresa, scoperchiare l’intero pentolone. Per ora siamo ancora ai riscontri di tutta la vicenda. Ma a settembre, quando si tireranno le somme dell’indagine, sarà tempo di vendemmia e i colpi di scena non dovrebbero mancare.

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