
Nel nome di una puntura

Ci avessero parlato due anni fa di un bene grande grande come una siringa, ci avessero detto che un vaccino, un bene comune, sarebbe diventato il bene assoluto. Ci avessero detto che la libertà andava meritata, che dovevamo essere degni di quella concessa attraverso il numero di commensali a tavola, che avremmo espiato quella di fare shopping. Forse avremmo chiesto titolo e autore del romanzo distopico.
Fatto il vaccino, «ho fatto il bene»
E invece, eccoci qui, alle porte della prima estate con la morale in tasca: calano i contagi, si muore meno, ci si ammala poco. Eccoci a fare due più due: allora è vero che il bene sono quelle mille punture di Raffaella, assistente sanitaria dell’Ausl, vaccinatrice della prima ora, «la sera torno a casa serena perché so di avere fatto del bene alle persone». E dello specializzando di Roma, «faccio 50 punture al giorno e ogni volta mi sembra di abbracciare mia nonna». E quella ricevuta dalla giovane influencer Francesca, che ha fatto il vaccino «per vedere mia nonna: non la vedo da mesi anche se abitiamo nella stessa città, per paura di farle del male», «non poterla vedere, toccare, sentire il buon profumo dei suoi ravioli, mi fa stare male e vaccinarmi mi fa sperare».
Bene è l’appello al “volemose bene” dello spot per la campagna per il vaccino firmata da Giuseppe Tornatore, l’anziana che ammonisce col dito alzato la nipote incerta se vaccinarsi da dietro una tenda di plastica: «Devi volerti bene». Questa estate il bene è la salute e la salute non è più un’opzione della libertà: è bene per forza. Far del bene è fare e farsi fare punture, agire per il bene è distanziamento e inoculazione, il suo contraltare l’assembramento e all’assenza di precauzioni. Se non fa due più due «fa male», «è male»: male la festa in piazza per lo scudetto dell’Inter, male il bacio della zia, le folle per le strade mentre gli anziani soli in attesa del vaccino guardano fuori dalla finestra.
Sacrificati alla salute
Eppure qualcosa non torna, non tornavano le manine ritagliate nel cartoncino mandate da un bimbo a sua nonna che desiderava solo riabbracciarlo. Non tornava qualcosa nel video virale della Cnn, che mostrava una nonna commossa abbracciare la nipote dopo il vaccino perché così le aveva prescritto il medico nella ricetta, dopo un anno di isolamento: «Ti è permesso abbracciare tua nipote».
Al di là dell’efficacia, non tornava fino in fondo il senso del sacrificio chiesto ai nonni in nome del bene-salute – «Un nonno che non vede il nipote magari è più “al sicuro”, ma non sta davvero bene», sbottava il filosofo Silvano Petrosino al Foglio – e anche ai ragazzi. Due più due, “messi in sicurezza”, spiegato loro che l’unica cosa per cui vale la pena sacrificare la vita è questo bene, la salute altrui, in molti hanno perso la propria. I suicidi, ci hanno spiegato dal Bambin Gesù, sono la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni, i tentativi di autolesionismo o di togliersi la vita da ottobre 2020 sono aumentati del 30 per cento tra gli adolescenti, dice lo studio Cesvi che si aggiunge a decine di allarmi internazionali e di storie drammatiche. Come quella di Matteo Cecconi, 18 anni, che si è avvelenato in diretta su un forum online, o di Seid Visin, morto di solitudine da lockdown e non di razzismo, come concionava la sinistra italiana.
La libertà (di cenare) «va meritata»
Qualcosa non torna, non ha funzionato. E ora, «ora stiamo discutendo di quale sia il numero massimo di persone con le quali si può andare a cena: due anni fa questo tema non faceva parte neppure lontanamente di qualsiasi discussione sulla libertà politica e sulla convivenza civile, perché nessuno pensava che lo Stato si dovesse occupare delle nostre cene»: lo ha detto benissimo Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni a proposito dello Stato paternalistico che, bontà sua, «ci consente la libertà di mangiare con più di tre amici».
Ma per un Mingardi che ci spiega che non sta affatto vincendo il bene ma «un modello ansiogeno che ha trovato nel ministro Speranza il suo campione» – Speranza, che quel romanzo distopico l’ha scritto davvero ma lo ha chiamato Perché guariremo. Dai giorni più duri a una nuova idea di salute, approfittando di un virus per imporre l’ingegneria sociale della sinistra – ci sono gli alfieri di questo strano bene comune e assoluto ridotto a salute e libertà a contagocce: «Coprifuoco! Chi avrebbe mai immaginato che un vocabolo così, dal sapore medioevale, sarebbe tornato d’attualità. Ora che stiamo per salutarlo, però, dovremo dimostrare di essere degni della libertà ritrovata». “Meritiamoci la libertà”: lo ha scritto (e titolato così) davvero Beppe Severgnini. Lodando il rispetto, «per quindici mesi, per l’esattezza 455 giorni» delle regole.
Dal pane al vaccino
Eccoci qui dunque, gli occhi puntati al numero di vaccinati e l’altro a quello dei contagiati, sperando di aver fatto le cose per il bene, di aver dato senso al sacrificio e di meritarci una libertà che più non chiede e più non sa muoverci (ridotta a bandierina dei procioni festanti il 25 aprile e cantanti Bella ciao): «Quindici secoli abbiamo continuato a tormentarci con questa tua libertà, ma ora è finita; siamo a posto e ce ne restiamo fermi – ci avrebbe detto qualcosa 455 giorni fa il Grande inquisitore dei Fratelli Karamazov? -. Sappi, allora che appunto tutta questa gente è adesso persuasa più che mai di essere pienamente libera, e intanto essa stessa ci ha offerto la sua libertà e l’ha umilmente deposta ai nostri piedi». Fino a due anni fa – spiegava duecento anni fa Dostoevskij – il dramma dell’uomo era volere il pane, non la libertà. Oggi, alle porte dell’estate, vuole solo una siringa.
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