Benzema è solo l’ultima figurina dell’operazione di sportwashing saudita

Dopo avere messo le mani a suon di miliardi sugli sport più popolari al mondo Riad tenta l'assalto al calcio strapagando i campioni europei da mostrare come trofei. E i difensori dei diritti (calciatori compresi) chiudono tutti e due gli occhi

Karim Benzema mostra il Pallone d’Oro durante la sua presentazione come nuovo giocatore dell’Al-Ittihad, squadra del campionato saudita (foto Ansa)

Nell’estate del 2016 la Cina annunciò un progetto ambizioso: diventare una superpotenza del calcio entro il 2050. Miliardi di investimenti per migliaia di strutture con l’obiettivo di portare, di lì a quattro anni, cinquanta milioni tra adulti e bambini a praticare uno sport che nel paese non aveva né tradizione né storia. Dall’Europa raggiunsero la Super League cinese allenatori e giocatori dai nomi prestigiosi. Nel giro di pochi anni quasi tutti se ne sono andati, la Nazionale cinese resta una delle più scarse al mondo, le velleità di Pechino di organizzare i Mondiali (e addirittura vincerli) soni quasi scomparse. Il calcio non ha sfondato, molti dei dirigenti che avrebbero dovuto guidare l’esperimento si sono dimessi o sono stati travolti da scandali e accuse di corruzione. Sette anni dopo si può dire con ragionevole certezza che il progetto è fallito.

Le mani di Riad sullo sport e sul calcio

La Cina è lontana, calcisticamente parlando, mentre ben più vicina appare oggi l’Arabia Saudita, e con lei i paesi del Golfo. Racconta nella sua newsletter On Soccer del New York Times Rory Smith che quando Karim Benzema è atterrato a Jeddah mercoledì sera il suo volto «sembrava decisamente sconcertato». Tutta quella gente, quelle telecamere, quell’accoglienza hanno sorpreso persino l’ex campione del Real Madrid e Pallone d’Oro in carica.

Ognuna di quelle persone aveva un telefono o una telecamera in mano, tutti volevano un pezzo della celebrità appena arrivata all’Al-Ittihad, il club che gli darà 400 milioni di dollari in tre anni per farlo scendere in campo con i propri colori in un campionato probabilmente tra i più brutti e insignificanti al mondo, ma nel quale da sei mesi già gioca un ex compagno proprio di Benzema, il cinque volte Pallone d’Oro Cristiano Ronaldo. Presto altri seguiranno: è quasi fatta per Kanté, si parla insistentemente di Zaha, Roberto Firmino, David De Gea, chi non ha ceduto alle offerte fuori mercato dei sauditi è stato Lionel Messi, che giocherà negli Stati Uniti, all’Inter Miami.

Le mani di Riad sul calcio sono soltanto l’ultima – ma più rischiosa – mossa di un’operazione lanciata da qualche anno per controllare gli sport più popolari al mondo, dal wrestling professionistico alla boxe passando per la corsa di cavalli più redditizia del pianeta, la Formula 1, la MotoGp, il campionato del mondo di rally e il golf, probabilmente lo sport più sconvolto di tutti dagli investimenti del Fondo per gli investimenti pubblici, il Pif. Il calcio, però, è il Sacro Graal degli sport: riuscire a metterci davvero le mani sopra, diventarne il motore economico e finanziario a livello globale darebbe a Riad un peso enorme.

Meglio pensare a Benzema che ai diritti negati alle donne

Però, spiega Smith sul Nyt, «il calcio non è, a differenza della Formula 1, del golf e del wrestling professionistico, effettivamente un monopolio, in cui un feudo onnipotente o un gruppetto di dirigenti può prendere decisioni per tutti. È, invece, un Game of Thrones». Ecco perché Qatar e Abu Dhabi hanno preferito investire sui club (Paris Saint-Germain e Manchester City), mentre l’Arabia Saudita, a parte la partecipazione del Pif nella proprietà del Newcastle, punta a cambiare il calcio in patria, arricchirlo, renderlo competitivo e vincere.

Perché? È ancora l’esperto di calcio del Nyt a sintetizzarlo bene: «Ci sono, in generale, due scuole di pensiero sulla rapida, aggressiva e sontuosa espansione dell’Arabia Saudita nello sport negli ultimi sette anni circa. Uno – quello offerto dalle autorità saudite, e da chiunque voglia trovare una giustificazione per accettare gli stipendi da far venire l’acquolina in bocca – è che lo sport è un modo per diversificare l’economia del paese lontano dal petrolio, per incoraggiare i suoi cittadini a essere più attivi, per contribuire a costruire una società più inclusiva, più “moderna”». L’altra è lo sportwashing: un paese in cui molti dei diritti umani più basilari non vengono rispettati ha bisogno che quando si parla di lui si parli di Cristiano Ronaldo e Benzema e non delle donne a cui viene vietato di guidare, degli omosessuali condannati o del giornalista saudita Jamal Kashoggi ucciso nel 2018.

Il denaro è l’unica valuta che conta nello sport

Come ha scritto Jawad Iqbal sullo Spectator, «qualche centinaio di milioni di sterline spesi per divinità calcistiche dal profilo globale e milioni di follower sui social sono soldi ben spesi per un regime che sta cercando di cambiare immagine sulla scena mondiale. Vuole essere visto come una destinazione turistica e sportiva, un paese in cui Messi, Ronaldo e compagni sono felici di giocare a calcio, contribuendo a distogliere l’attenzione internazionale dal suo abissale record di diritti umani». Eppure chi solitamente è solerte nel denunciare violazioni dei diritti umani anche là dove non sono violati sembra chiudere gli occhi di fronte a queste operazioni.

Il tifo calcistico è ormai sempre meno legato alle squadre e segue sempre di più l’affezione per il singolo giocatore. Il sauditi lo sanno, e hanno iniziato a puntare su giocatori già affermati ma non ancora “bolliti” per legare l’immagine di Riad a quella di icone amate in tutto il mondo. E i giocatori, che quando giocano in Europa si dicono sempre molto sensibili ai temi dei diritti umani, fanno campagne civili e indossano maglie arcobaleno improvvisamente se ne dimenticano, accettano le offerte mostruose che vengono loro fatte ed elogiano il paese che li ha comprati. Tra gli applausi di quasi tutti i media. Il denaro è l’unica valuta che conta nello sport internazionale e i sauditi ne hanno più di chiunque altro al mondo.

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