
«Biagi, cattolico e socialista, era amico dei lavoratori e credeva nella sussidiarietà»
Dieci anni fa, alle 20 del 19 marzo 2002, il giuslavorista Marco Biagi veniva ucciso dalle nuove Br di Nadia Lioce e Mario Galesi: era reo di aver firmato il Libro Bianco e quella legge di riforma del mercato del lavoro che poi prese il suo nome. Paradossalmente l’anniversario cade proprio mentre si lavora ad una nuova riforma, e di nuovo, proprio come 10 anni fa, mentre si infervora il dibattito sull’articolo 18. Le nuove Br nel 2002 avevano identificato Biagi come il nemico ideologico da abbattere, niente di più sbagliato e lontano dalla sua vera identità. «Marco Biagi era un cattolico e un socialista» ricorda a tempi.it Michele Tiraboschi, allievo di Biagi nonché docente di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia e direttore scientifico della Fondazione Biagi: «Per questo era declinato in una cultura della sussidiarietà, che si sviluppava nel rapporto con soggetti, come associazioni o sindacati, che capivano che il cambiamento era in chi cerca lo strumento della contrattazione, del dialogo, per creare una riforma».
Quali sono gli insegnamenti di Biagi che guidano il suo lavoro e che dovrebbero guidare chi è impegnato nel riformare il mercato del lavoro?
Il principale insegnamento è un metodo: essere attenti all’esperienza degli altri paesi. Biagi infatti era un giurista comparatista. Ma era anche attento all’impatto di una norma su altri profili oltre a quello strettamente giuridico, e ci avrebbe aiutato sicuramente a contestualizzare le norme valutandone l’impatto sociale ed economico. Ci avrebbe fatto capire che non è semplicemente la riforma legislativa che cambia il mondo del lavoro, ma che è necessario un cambio di mentalità, delle persone. Per questo è utile valutare anche complessi organizzativi ed economia di un paese per fare le norme.
Un giudizio sulla proposta di riforma del lavoro presentata dal governo Monti rispetto agli insegnamenti di Biagi?
Proprio l’esperienza della Legge Biagi insegna ad avere cautela nel dare giudizi su riforme così profonde e complesse. Diciamo che c’è molta sintonia sugli obiettivi che Biagi aveva, sia per l’estensione degli ammortizzatori che per la riduzione della flessibilità cattiva in entrata. Mi sembra però che la realizzazione concreta di questi obiettivi sia ancora molto difficile, perché c’è un’immagine del lavoro che emerge dalla contrattazione molto vecchia. Il governo cerca infatti l’intesa con Confindustria e con i sindacati, ma trascura le piccole e medie imprese e l’artigianato, realtà nuove e vivissime. Non si capisce che la pmi è quella che negli ultimi dieci anni ha creato lavoro. Questa esclusione rischia di alimentare più lavoro nero: non dobbiamo dimenticare che un quarto della nostra economia è sommersa, ma pensare di irrigidire le tipologie contrattuali e alimentare la pressione sulle pmi è una scelta sbagliata in un momento di crisi.
Cosa ne pensa dell’apprendistato come canale privilegiato o unico di ingresso al lavoro?
Un tema come questo dimostra che c’è maggiore maturità nel paese. Dieci anni fa, infatti, anche con Biagi se ne parlava, ma era una scelta contestata, mentre oggi si registra una convergenza generale. Nel disegno contrattuale, l’apprendistato è identificato già da Biagi come il migliore canale di incontro tra l’impresa e il lavoratore, sulla base della formazione al nuovo dipendente, che crea anche maggiore competitività all’impresa.
Come valuta invece l’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego, e i contributi più elevati alle imprese per i contratti a tempo determinato o precari, in modo da scoraggiarli?
Per quanto riguarda i contributi dei lavori a tempo determinato e a progetto è una soluzione molto buona, anche se bisogna identificare le tipologie fittizie che vanno eliminate. Su alcune tipologie contrattuali infatti (partite Iva o associazione in partecipazione) è evidente che ci sono abusi. Sorprende in negativo invece l’assenza di un intervento più drastico sull’abuso degli stage, che oggi sono usati in maniera abbondante e non corretta: l’azienda che fa due conti, potrebbe ancora preferire all’apprendistato, che ha un costo equo, lo stage che è ancora gratuito. Vanno chiuse invece le porte a queste forme di abusi. L’Aspi a mio avviso è invece una tassa universale, imposta dal legislatore, che però penalizza le buone prassi già esistenti dell’artigianato e delle pmi, che spesso avevano provveduto con contrattazione bilaterale.
Dieci anni dopo la morte di Biagi, l’articolo 18 è ancora al centro delle polemiche. Ci può spiegare quali erano le sue idee e proposte al riguardo? E secondo lei c’è una strumentalizzazione di questo tema?
Marco Biagi non era un nemico dei lavoratori, ma un amico di lavoratori in carne e ossa, e voleva estendere l’occupazione alle donne, al meridione, a chi aveva collaborazione continuate finte, ai lavori atipici. Lui volle regolamentare queste forme contrattuali e la sua filosofia è stata l’inclusione, senza barriere di principi astratti. Emblematico di questa tensione di Biagi per un mercato del lavoro più moderno è stato il dibattito che oggi ritorna sull’articolo 18. Quando presentò il Libro Bianco in giro per l’Italia (lo provano i suoi interventi, che sono stati raccolti e pubblicati), fu lo stesso Biagi a dire che non voleva più parlare dell’articolo 18 perché lo riteneva un falso problema. Preferì concentrarsi su moderni servizi per l’impiego e sui sani rapporti tra azienda e lavoratori. La sua grande rivoluzione fu di ritenere che il diritto del lavoro ha la funzione di garantire le tutele, cioè di una distribuzione della ricchezza, ma prima ancora il diritto del lavoro deve occuparsi delle condizioni per creare ricchezze, con regole per rendere le imprese forti e competitive, perché così possono produrre ma anche dare maggiore lavoro. Oggi, ad esempio, ci sono ancora i contratti nazionali che si applicano per tutte le imprese, grandi o piccole, che vanno bene o male, del meridione o del Nord. Biagi diceva invece che bisognava personalizzare il contratto, il diritto del lavoro.
Già dieci anni fa c’era il problema dello sfruttamento dei lavoratori atipici, oltre che di quelli in nero. Su questo come avrebbe voluto intervenire Biagi?
Come dicevo le norme bisogna vederle anche sotto il loro impatto culturale. Ci sono già leggi che vietano di licenziare una donna incinta o di usare lo stage per non pagare un lavoratore. Eppure questi abusi proliferano perché c’è una questione anche etica. Ha sempre lanciato una sfida educativa all’imprenditore che pensa a usare l’azienda per creare profitto solo per sé e non per l’intera comunità. L’altro grande insegnamento di Marco Biagi è proprio una sfida educativa a questo modo di fare. È sempre andato in giro per scuole o a fare convegni per creare una nuova forma mentis, quella di un imprenditore onesto che guarda negli occhi un giovane e comprende che a lui conviene dare stabilità anziché precarietà, perché valorizzando la persona rende la sua impresa più forte. Si è meno competitivi se si abusa di stage e contratti a progetto.
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