Bisognava ricominciare sempre, ricominciare da Norcia

Sette anni fa un'ostia di pietra, tutto ciò che restava della basilica di San Benedetto, diventava l'emblema del terremoto. Oggi è un nuovo inizio

I monaci benedettini durante la messa celebrata all’interno della Basilica di San Benedetto a Norcia, quasi totalmente crollata per il sisma di sette anni fa, e ora ricostruita nelle sue mura e nel tetto (foto Ansa)

Bisognava ricominciare sempre ed ecco, come il chiarore di una mattina di Pasqua, la messa a San Benedetto di Norcia. Ecco le campane, precipitate nel boato buio della terra dilaniata dal terremoto, cercate, dissepolte e di nuovo lucenti in attesa della benedizione. Ecco le pareti, innalzate pietra su pietra dagli uomini laddove sorgevano le antiche sorelle sbriciolate, mura ancora grezze ma aggrappate a nuove, salde colonne, e la volta lignea inondata di sole. Ed ecco i monaci, che la mattina del 30 ottobre 2016 corsero in città con l’olio sacro verso la gente che «ammucchiata in piazza come pecore pronte per il macellaio, aspettava il crollo o del campanile del comune o della facciata della Basilica, l’unica parte della chiesa rimasta in piedi dopo il terremoto del 24 agosto».

Tutto è ancora una volta nuovo, un nuovo inizio – non lo chiamava così Péguy, questo innesto dell’eterno nel tempo, questo riaccadere temporale della grazia, dell’inizio di grazia, non è il meccanismo proprio del cristianesimo? Sono passati sette anni dalla scossa che sventrò la basilica fondata sul luogo dove nell’anno 480 nacquero Benedetto e la sorella Scolastica, lasciando in piedi solo facciata e abside, sette anni dalle immagini di quell’ostia di pietra davanti alla quale si erano radunati fedeli impolverati e in ginocchio a pregare, che immersero il mondo nella coscienza vivida della perdita degli abitanti del cratere d’Italia. «Questo edificio sacro è diventato l’emblema del sisma, ma è ancora di più la prova della capacità dell’essere umano di risollevarsi, di tornare a sperare, di guardare in alto», ha detto il vescovo di Spoleto-Norcia Renato Boccardo, «e, con la forza di questo sguardo, tornare verso la terra e porre tutta l’intelligenza, la maestria, la fantasia e l’impegno al servizio di un comune riscatto, per risollevare, insieme alle mura delle case, dei luoghi di lavoro e delle chiese, anche il morale delle persone e delle comunità e per risvegliare la gioia di vivere».

«Il terremoto di Norcia diventerà la pietra angolare»

Bisognava ricominciare sempre, come sette anni fa, quando la scia di distruzione si fece largo, il 24 agosto, tra Accumoli, Amatrice e Arquata del Tronto, lasciando sotto le macerie 303 vittime. I monaci di Norcia erano in strada quando alle 3.36 arrivò la prima, fortissima scossa: era il giorno di San Bartolomeo e come accade nei giorni di festa invece di alzarsi alle 3.40 per la preghiera mattinale si erano alzati prima, alle 3.25. E in strada rimasero pregando il rosario insieme a fedeli accorsi terrorizzati sotto la statua di San Benedetto per tutto il terremoto, mentre la terra scricchiolava sotto i piedi, la basilica tremava, il monastero dondolava, la birra Nursia si frantumava, i restauri appena ultimati alla casa natale di San Benedetto diventavano in pochi secondi in macerie.

E tutti si salvarono. «Dio ricaverà del bene per voi da questa sofferenza e questo terremoto diventerà la pietra angolare sulla quale generazioni di monaci costruiranno la loro vita monastica», aveva promesso loro l’arcivescovo Alexander K. Sample di Portland, Oregon, visitandoli nel monastero di San Benedetto in Monte dopo la nuova, potente, serie di scosse del 26 ottobre che aveva inflitto nuovi danni alla basilica.

Il giorno del miracolo di San Benedetto

Finché, la mattina del 30 ottobre del 2016, i monaci erano scesi dalla montagna, correndo in città con l’olio sacro. Lasciando nei prefabbricati, costruiti dopo il terremoto di agosto, otto di loro in ginocchio, lo sguardo fisso su Norcia dilaniata dal secondo terribile sisma e la corona del rosario in mano per pregare per le persone e chi correva a soccorrerle. Si erano fatti strada, tra la gente terrorizzata e le macerie fumanti, avevano guidato i vigili del fuoco nelle abitazioni a trascinare fuori vecchiette che non volevano uscire, li avevano convinti a buttare giù la porta della cappella delle Clarisse, dove otto suore terrorizzate attorno all’altare pregavano che qualcuno venisse a salvarle.

Tutto era crollato, eppure nessuno era morto. I monaci raccontano spesso di quel fatidico giorno come il giorno del miracolo di San Benedetto che ha preso su di sé i peccati di Norcia, come Cristo per il mondo, offrendo all’uomo l’occasione di convertirsi. Il giorno in cui videro il loro monastero sbriciolarsi e decisero di onorare il metodo monastico che aveva cristianizzato tutta l’Europa: restare e costruire. «Pretendere che Dio restituisca ciò che abbiamo perso è una grande tentazione», ha scritto più volte il priore padre Benedetto Nivakoff mentre un popolo da tutto il mondo li aiutava a rimettere in piedi il monastero, certi che il monastero avrebbe aiutato il popolo.

Ciò che «solo la chiesa di pietra può consolidare»

«Bisognava ricominciare sempre. Solo dei ricominciamenti temporali assicuravano, solo potevano assicurare non una continuità, una continuazione, (una parvenza di continuazione?) della regola eternamente perpetua» – è ancora Péguy. E così, “Nova Facio Omnia”, «ecco, io faccio nuove tutte le cose!»: il motto venne aggiunto allo stemma del monastero nel ventennale della fondazione canonica, vent’anni di storia che cadevano in pieno scavo delle fondamenta della loro nuova casa sulle pendici del Monte Patino in Umbria. Era il 2019, e la ricostruzione, quella di un antico convento del XVI secolo in rovina che si affaccia sulla Piana di Santa Scolastica, era iniziata dal luogo più improbabile: la lavanderia. Proprio come 500 anni prima, quando venne costruita nel muro di contenimento che canalizzava l’acqua delle montagne nel monastero.

Un anno dopo, l’anno in cui tutto si è fermato, l’anno delle chiese d’Europa chiuse per la paura del contagio o date alle fiamme e riconvertite in pub, musei, campi da minigolf per mancanza di fondi e fedeli, padre Benedetto e compagni hanno continuato a edificare sui monti dove i monaci costruirono la civiltà del continente cristiano distrutto dai barbari, coscienti del valore di ogni altare consacrato, celebrando, in Santa Maria della Misericordia, il dies natalis, la rinascita della loro chiesa e del passaggio dalla precarietà alla stabilità «che solo la chiesa di pietra può consolidare»; ricordando le nascite dei santi e martiri ascesi al cielo «attraverso gli edifici in cui preghiamo», «resta ancora molto da costruire – scriveva padre Benedetto -, poiché le mura del monastero stanno venendo su pian piano, ma speriamo che questa riapertura di una chiesa con la “c” minuscola possa servire a ricordare a tutti noi che la Chiesa è più matura per i frutti quando è più debole».

Piccole mani ad agire, e occhi dei grandi rivolti altrove

Il 3 settembre scorso i monaci, che vivono fuori dal mondo ma alla cui porta bussa incessantemente e mai come oggi il mondo, hanno iniziato le celebrazioni del loro venticinquesimo anno dalla fondazione (leggere qui come sono arrivati a Norcia e perché questi “monaci da combattimento”), giubileo d’argento che si concluderà il 12 giugno prossimo e con una festa, il 15, per inaugurare il nuovo monastero. Ricominciando sempre poiché «tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove», ha scritto padre Benedetto richiamando Tolkien.

I lavori in San Benedetto dovrebbero terminare invece nel 2025 (un intervento, abbiamo letto sui giornali, da 15 milioni di euro assicurati dallo Stato e dall’Ue a cui si aggiungono importati integrazioni dall’Eni). Il commissario straordinario alla ricostruzione Guido Castelli ha ricordato che ci sono ancora lavori per almeno 9 miliardi per la ricostruzione pubblica e almeno 11 miliardi per quella privata. «Ci sono ancora troppe persone, circa 30 mila, che vivono fuori dalle loro case».

Senza speranza non resterebbe che un cimitero

Eppure il 30 ottobre, gli sguardi di Norcia e noi lontani da Norcia erano tutti su San Benedetto, le sue campane rinate dalla terra martoriata e benedette dal vescovo, le sue mura segno di «speranza» perché la speranza è certezza che «quando ci si mette insieme, quando si guarda un fine comune, è possibile realizzare grandi cose», ha continuato monsignor Boccardo.

Seduti sulle panche cantano i monaci che insegnano al mondo che senza speranza di fede e carità, cattedrali e ricoveri delle miserie del mondo, non resterebbe che un cimitero dopo il terremoto, dell’uomo pellegrino un turista radicato nel villaggio globale, della carità una generica compassione umanitaria incurante dell’altro se non per la sua sofferenza. Bisognava ricominciare sempre, dalle radici profonde che “non gelano” e non si sostituiscono con la presenza virtuale e non ci fanno, da Norcia al Medio Oriente, semplici rappresentanti di una specie sofferente nella storia, ma costruttori di cattedrali. Uomini che nella paura che ha preso oggi come allora la terra di Benedetto ancora si uniscono a pregare per ricostruire, fedeli come una cittadella. I monaci fanno un voto di stabilità. Uno dei frutti di questo voto è quello che chiamano “amore del luogo”. Amano quel luogo e lo ricostruiranno ad ogni grande terremoto. Bisognava ricominciare sempre, altrimenti, scriveva Péguy, «sarebbe subito il regno di Dio e non questa città di Dio. Sarebbe stata l’eternità subito. E allora io la storia non esisterei». Bisognava costruire qualcosa che fosse per sempre: oggi come negli anni caotici vissuti dal santo patrono d’Europa, oggi come nel 2016, quando in molti in Italia si chiesero cosa poteva restare in piedi quando tutto era crollato.

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