Blacksburg, via Sarpi e le banlieue dimostrano che le identità devono riconoscersi, non annacquarsi

Il malessere contemporaneo deriva – ce lo illustrano tragedie quotidiane – dal tentativo relativista di negare l’importanza delle identità e delle appartenenze da cui sono alimentate. Non possiamo però pensare che si tratti semplicemente di proseguire le identità di ieri: il mondo è in fortissimo movimento (basta pensare alle migrazioni) e stare nel proprio tempo significa, oggi come sempre, raccoglierne le sfide. La ricchezza della globalizzazione è anche questa, e quando il patriarca di Venezia Angelo Scola parla di meticciato come caratteristica della condizione postmoderna (ma forse anche di quella umana di sempre) illustra – mi sembra – anche questo enorme processo di incontri, di mescolanze, di nuove identità in formazione. Non si tratta dunque di arroccarsi in immaginarie identità “tradizionali”, immutabili, imbalsamate e senza vita. Occorre piuttosto riconoscere tutta la ricchezza delle tradizioni che costituivano le appartenenze di ieri per sostituire all'”uomo vuoto”, dunque disperato, cantato da Eliot e prodotto dal relativismo, un uomo tranquillamente consapevole delle sfide del tempo e forte di nuove sintesi identitarie e culturali, costruite pazientemente con la grande ricchezza di materiali antropologici e culturali che l’oggi ci offre.
Cho, lo studente che ha compiuto la strage in Virginia, era di origine coreana, i milanesi inquieti attorno a via Paolo Sarpi sono cinesi, gli incendiari delle banlieue sono islamici nordafricani. Ognuna di queste situazioni ci presenta identità d’origine piuttosto forti, e identità di arrivo autoindebolite da una visione relativista che nega l’importanza di culture e tradizioni, provocando quindi reazioni aggressive e distruttive. È proprio questo modo di relazionarsi con l’altro, improntato a un buonismo banalizzante, a rendere l’incontro impossibile e a trasformarlo in uno scontro, strisciante o esplicito. Perché l’incontro avvenga davvero, infatti, occorre che le identità di chi accoglie e di chi viene accolto, e le rispettive appartenenze, vengano riconosciute e valorizzate con precisione, non sbiadite e ridotte a disvalore o a qualcosa di irrilevante.
È quel che accade, del resto, anche nell’incontro tra due persone: sarà tanto più ricco quanto più definito sarà l’io dei due che si incontrano, consapevole dell’appartenenza da cui si alimenta. Se l’incontro avviene davvero, però, esso non dà luogo a un persistere delle culture così com’erano, in un multiculturalismo gelido, che esiste solo negli schematismi sociologici. Se l’incontro avviene realmente, nel rispetto delle rispettive identità e tradizioni, mette in moto un vero cambiamento, di tutti, che finisce col fare uscire gli aspetti più vitali di ogni tradizione. Ecco perché il rispetto delle identità ne fa nascere di nuove e adeguate alla situazione, mentre la loro svalutazione porta a un’implosione identitaria depressiva e suicidale, come nei gruppi che non si riproducono più, oppure a esplosioni di violenza.
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