
Bomba Iran
Kiryat Shmona (confine israelo-libanese)
C’era una volta Kyriat Shmona. C’era una volta Metula. Non c’era il Libano. Non c’era Israele. Mair Ben Dov ha settant’anni. Fa l’archeologo. Vive qui da tre generazioni. Lui racconta. Il confine brucia. Le katyushe svuotano la città. I Merkava divorano l’asfalto. C’era una volta e c’erano circassi, ebrei, sciiti, drusi e cristiani. Finisce lì. Suona l’allarme, la città sprofonda nei rifugi. La mia mente corre indietro, cerca lo spartiacque.
Hezbollah nasce nel 1985. A tenerlo a battesimo c’è l’ambasciatore di Teheran in Siria. Si chiama Alì Akbar Mohtashemi Pur. A dar retta agli americani è stato lui, fresco di rivoluzione, a preparare i piani per gli attacchi suicidi del 1983 contro marines e francesi. Mohtashemi lo incontro a Teheran. Sono i primi di giugno 2001. Il presidente riformista Mohammed Khatami ha appena incominciato la campagna elettorale per la sua rielezione a presidente. Sul palco ci sono il presidente e l’ex ambasciatore Mohtashemi. Come molti altri falchi della rivoluzione, come molti di quelli che parteciparono all’assalto all’ambasciata americana, è entrato nel campo riformista. Lotta sul fronte interno contro il campo conservatore, continua sul fronte internazionale a condividerne princìpi e obiettivi. Lo fa solo con maggiore di-
screzione, meno retorica. I prezzi del petrolio stanno risalendo, le ferite dalla defatigante guerra con l’Iraq si stanno, dopo 12 anni, finalmente cicatrizzando. Teheran non vuole più essere il paria del Medio Oriente. Riallaccia i rapporti con i paesi arabi, si ritaglia un ruolo nella rivolta palestinese appena riesplosa. «Questa tendenza – scrivo nel mio articolo di quel giorno – si è manifestata in tutta la sua ampiezza lo scorso 24 aprile quando Teheran ha ospitato e sponsorizzato la più grande assemblea medio-orientale sulla Palestina. Tra i nomi degli organizzatori c’erano nomi chiave dello schieramento riformista come Mohtashemi, capogruppo parlamentare dello schieramento riformista. Tra gli ospiti d’onore brillavano i nomi di Hassan Nasrallah, leader dell’Hezbollah libanese, Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas e Ramadan Shalah segretario di Jihad Islamico».
Corsi d’addestramento al sacrificio
Sono passati cinque anni, il movimento riformista non esiste più. Il supremo leader iraniano Ayatollah Alì Khamenei ricorda che il fronte per la difesa dell’islam passa lungo la frontiera libanese. Mohtashemi riciclato come presidente del “Comitato per l’appoggio all’intifada” ritrova i toni di un tempo. «Ci sono paesi che hanno le armi, ma non il coraggio per usarle» spiega in un’intervista. Ricorda che fu l’imam Khomeini a dar ordine di addestrare gli sciiti libanesi in Iran e di fornire loro armi e munizioni. «Quando ero in Siria e in Libano organizzammo trecento corsi di addestramento con trenta uomini ciascuno, a tutt’oggi Hezbollah deve aver addestrato più di centomila uomini direttamente o indirettamente». In cinque anni non sono cambiati solo i toni. Ricordo a Teheran lo scorso aprile. Dentro la vecchia ambasciata americana è in corso una mostra sulla Palestina. Il mio interprete mi mostra uno stand. «Guarda c’è “La bottega del martirio”». Dietro il banco, tappezzato da immagini di cadaveri e sangue, Mohammad Samadi distribuisce consigli, istruzioni, depliant e verbali d’iscrizione. è un giornalista ventinovenne, è il fondatore e il portavoce del “Dipartimento per la commemorazione dei martiri mondiali”. «Questa è un’organizzazione per riunire e addestrare in maniera seria e professionale chiunque voglia sacrificarsi sul fronte del martirio» spiega Samadi. «Sottoponiamo i volontari ad una serie di test politici, ideologici e attitudinali. Se li superano li richiamiamo per l’addestramento vero e proprio. Abbiamo già ricevuto 55 mila adesioni e abbiamo completato la preparazione di mille volontari divisi in tre battaglioni». Alcuni di loro sarebbero già sul fronte libanese pronti a sacrificarsi per fermare Israele.
La memoria corre indietro a una giornata dell’ottobre 2000. Siamo in una jeep blindata, io e quattro soldati israeliani. Hanno gli occhi e la armi puntati contro la barriera di rete cemento e filo spinato, il confine è a dieci metri. «Non puoi mai sapere – sussurra il sergente – sono ovunque, sono bravi, combattono bene, se non stai attento ti fregano, è già capitato ai nostri tre compagni, se non tieni gli occhi aperti quella rete non può bastare». Ha 22 anni e tre di servizio sulle spalle. Prima del ritiro ha combattuto in Libano. Ora vuole solo tornare a casa. «E non voglio farmi fregare negli ultimi mesi». Quindici giorni prima è capitato a tre suoi colleghi. Di loro in quei giorni non si sa nulla. I loro resti verranno restituiti quattro anni dopo, assieme ad un trafficante ebraico caduto a causa dei suoi loschi affari nella trappola di Hezbollah. La jeep si è fermata. Parla il colonnello. Ha 38 anni, è il comandante, ma non è un Drogo qualsiasi. Quello davanti non è il deserto dei tartari. «Questa faccenda del ritiro è stata una grossa stupidaggine, quelli sono tutti attorno, gli iraniani li aiutano, loro diventano ogni giorno più forti, scavano bunker, aprono nuove postazioni. In Libano ci sono stato tanti anni, quelli prima o poi se ne approfitteranno, ci colpiranno di nuovo. Non date retta ai politici, questi non sono i territori palestinesi, questa è guerra vera».
Un anno dopo, settembre 2001. Le torri sono crollate da poco, sono a Kfar Kial dall’altra parte del confine. Sul grande cartellone nero solo quattro fotografie. Enormi e terrificanti. La testa mozzata di un soldato d’Israele stretta nel pugno di un miliziano sciita. Uno scarpone appoggiato sulle mostrine in ebraico di un corpo senza vita. Un prigioniero israeliano trascinato da una folla rabbiosa. Un volto coperto di sangue e ferite. In mezzo una scritta. «Sharon ricorda: i tuoi soldati sono ancora in Libano». A pochi passi un’alta rete elettrificata. Al di là una fortezza di cemento, antenne, telecamere e mitragliatrici. Siamo sull’altura BP33, sperduto “non luogo” sulla “linea blu”, la frontiera che, dopo il ritiro israeliano del maggio del 2000, divide il Libano dallo stato ebraico. Rinchiusi nel bunker vegliano, con negli occhi quelle foto, i soldati con la stella di David. Alle spalle del cartellone, in un avamposto sormontato dalla bandiera dell’Onu, ozia un gruppetto di caschi blu del Ghana. Cinquanta metri più indietro su una trincea di massi, sacchetti di sabbia e filo spinato, garrisce il vessillo giallo di Hezbollah.
Qui la pace non è mai arrivata
«Qui la pace non è mai arrivata. La guerra non finirà fino a quando Israele non restituirà i territori delle fattorie di Sheeba e non si ritirerà dalla Palestina» mi spiega Ahmed Obed, 32 anni, otto dei quali trascorsi in in una prigione dello Stato ebraico. «La guerra, quella vera – scrivo quel giorno di cinque anni fa – è già nell’aria. Tra queste montagne impervie abitate da libanesi sciiti il movimento Hezbollah, finanziato e armato dagli alleati iraniani, ha costruito uno Stato nello Stato. La presenza delle “Forze Libanesi”, l’esercito del paese dei cedri, è puramente simbolica. La difesa del confine, la sicurezza e l’ordine sono monopolio delle milizie filo iraniane». Mi dice Ahmed: «Per vincere le guerre ci vogliono coraggio e forza d’animo. Noi le abbiamo, loro no. Quando eravamo prigionieri gli israeliani ci dicevano sempre: fossimo come voi il Libano non esisterebbe più». Ma la potenza di Hezbollah si basa anche su due altri fattori: gli immensi arsenali e un profondo consenso popolare. «Tra marzo e aprile di quest’anno – annoto in quel settembre 2001 – Teheran ha trasferito qui, grazie a un ponte aereo su Damasco, centinaia di tonnellate d’armamenti. Tra questi anche nuovi missili a lunga gittata capaci di colpire in profondità il territorio israeliano».
Quel pomeriggio visito la scuola privata di Al Mehdi, a Nabatiye, nel cuore del Libano meridionale. In quella scuola privata una legione di insegnanti usciti dalle fila del movimento garantisce l’educazione delle nuove leve di Hezbollah. «Abbiamo 1.500 alunni, dai sei ai tredici anni – spiega il direttore Mohammed Safar – per le famiglie più svantaggiate e per gli orfani di guerra metà delle spese sono a carico del movimento. I nostri libri sono al 90 per cento gli stessi utilizzati nelle scuole pubbliche, ma il livello dell’insegnamento e la disciplina sono molto più elevati». Nelle classi le bambine con capi velati e i ragazzini in divisa blu seguono le lezioni con una disciplina di stampo militare. I disegni a pastello appesi alle pareti ritraggono carri armati israeliani incendiati e soldati ebraici inseguiti dalle bandiere gialle di Hezbollah. «Studiamo – mi spiega un ragazzino di tredici anni – per costruire il futuro del nostro paese. Il Libano non sarà mai più un paese occupato. L’educazione sarà la nostra arma per sconfiggere l’America e Israele». Oggi ha diciotto anni. Forse è in un bunker oltre confine. Forse mentre scrivo armeggia a uno dei missili puntati sulla mia testa.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!