
Brucia il paradiso
Il ruolo di tsunami nelle acque paludate dell’informazione sotto le feste è toccato, quest’anno, al Kenya. 230 mila voti di scarto tra i due candidati alla presidenza del paese appartenenti a due diverse etnie sono bastati a precipitare un intero paese nel caos degli scontri e della violenza etnica. Si è parlato di un odio tribale, sanguinoso e dal sapore ancestrale come solo l’Africa ne può produrre. Vero, ma solo in parte. Perché per addentrarsi nella gravissima crisi keniana (si parla di duecento vittime e oltre 70 mila sfollati) bisogna mettere in chiaro almeno una cosa: il Kenya non è il Ruanda, né l’Uganda. Qui la convivenza tra etnie diverse non è mai stata una chimera.
I due protagonisti della crisi sono Mwai Kibaki, il presidente uscente di etnia kikuyu (maggioritaria nel paese), riconfermato al potere da un risultato elettorale proclamato con una fretta sospetta e ormai internazionalmente riconosciuto come falsato da pesanti irregolarità. Dall’altra parte c’è Raila Odinga, leader del principale movimento di opposizione, l’Orange democratic movement, politico di lungo corso con un passato nei partiti ideologicamente più diversi (è stato educato nella Germania Est e per questo si è definito anche comunista per un certo periodo). L’apparente riconferma di Kibaki ha scatenato i sostenitori di Odinga, appartenenti, come lui, all’etnia luo, terza nel paese. Scontri, morti, feriti, esercito in piazza, il resto è cronaca di questi giorni. Appunto, di questi giorni, dei giorni infernali seguiti a una campagna elettorale infuocata e totalmente incentrata dai due protagonisti sugli elementi etnici e tribali.
«A Kahawa Sukari, periferia di Nairobi, abbiamo l’asilo, la scuola primaria e stiamo per avviare anche l’istruzione secondaria. La scuola è sempre stata aperta a tutti e gli insegnanti, appartenenti a tutte le etnie del paese, hanno sempre lavorato insieme senza problemi». La testimonianza di padre Alfonso Poppi, missionario della fraternità San Carlo Borromeo, giunto in Kenya dieci anni fa dopo 25 anni trascorsi in Uganda, non traccia solo un idilliaco scenario di convivenza all’interno di una parrocchia. «La fede crea un legame più forte di quello della tribù», spiega il missionario. «Sono stati i genitori stessi, soddisfatti dell’esperienza dell’asilo, a chiederci di andare avanti».
Che la realtà non sia riducibile a una contrapposizione tra luo e kikuyu lo gridano a gran voce anche i vescovi keniani. In un documento diffuso il 2 gennaio la Conferenza episcopale esprime profondo dolore per il sangue versato e si appella a tutti i cittadini perché lascino da parte la violenza, perché, si legge nel documento, «abbiamo vissuto insieme per anni come fratelli e sorelle. Non c’è dunque ragione perché ci lasciamo usare per alzare le mani contro i nostri vicini, solo perché appartengono a un gruppo etnico o politico diverso. La vita è sacra! In Dio apparteniamo tutti alla medesima famiglia».
«Non possiamo perdere il Kenya», ha scritto il Wall Street Journal, sottolineando che in serio pericolo c’è un modello prezioso per tutta l’Africa. Perché la violenza tribale è tanto più orrenda in un paese che sembrava finalmente ben avviato verso un futuro democratico e di stabilità economica. Il prezzo che l’economia di Nairobi potrebbe pagare per questo putiferio è, in effetti, altissimo. Distruzioni e devastazioni a parte, quello che rischia di andare in pezzi è il capitale di fiducia di cui il paese gode presso i turisti, soprattutto inglesi e italiani, risorsa preziosa in un’economa altrimenti basata soltanto sull’agricoltura (principalmente té e caffè). L’aveva capito Mwai Kibaki, che nel 2002 vinse le prime vere elezioni libere del paese, presentandosi come l’uomo del cambiamento democratico dopo decenni di potere autarchico di Daniel arap Moi. Sotto Kibaki il Kenya ha compiuto, in effetti, importanti passi avanti nel campo dell’istruzione gratuita primaria e secondaria, dei servizi e dell’economia. Ma resta purulenta e diffusa come in molti paesi africani la piaga della corruzione, che Kibaki aveva titanicamente promesso di sanare. Oggi è Odinga a proporsi come nemico senza quartiere della corruzione, anche se, in realtà, la sua unica forza sembra quella di non essere Kibaki e non avere alle spalle cinque anni di governo.
Così, in una sfida che è tutto fuorché un corpo a corpo ideologico, i due hanno scelto di soffiare sul fuoco delle differenze etniche e tribali, sempre facili da risvegliare, appiccando un incendio che oggi rischia di incenerire gli sforzi di un paese sulla lunga e difficile via della modernizzazione.
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